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di Andrea Cozzolino

L’Unità, 28 ottobre 2023

Ogni tentativo è solo accanimento terapeutico. Chiuderlo è un’urgenza non rinviabile. Poggioreale va chiuso. Non esistono mezze misure, né credibili alternative. Non servono costose ristrutturazioni. Tentate, e mai concluse, tra lungaggini burocratiche, e vincoli. La vita lunga di Poggioreale, carcere costruito nel 1914, è giunta alla fine. Ogni tentativo è puro accanimento terapeutico, non c’è futuro.

È un investimento di risorse ed energie senza ritorno. La chiusura di Poggioreale è una urgenza non rinviabile. Non è in discussione il lavoro di tanti, lo sforzo per rendere quel luogo più accogliente e sicuro, ridurre di qualche unità un sovraffollamento vergognoso. Siamo a 2051 persone su una capienza di 1600, quante potrebbe effettivamente ospitarne. Non è soprattutto il tempo di proclami, impegni delle istituzioni, a vario titolo e competenza. Certo, c’è il lavoro prezioso di volontari ed associazioni, c’è lo sforzo immane che fanno operatori, guardie, direttore, quotidianamente. Ma non basta più.

E soprattutto non è più il tempo di affidarsi al rituale e puntuale grido di dolore, dopo una visita istituzionale. Occorre mettere fine ad una vergogna. Avviare un progressivo smantellamento, ricollocare i 2050 ospiti - detenuti, attuare un piano di rigenerazione dell’intera area urbana, aprire un confronto di alto profilo per disegnarne un nuovo futuro, coinvolgendo i cittadini del quartiere, che da anni - praticamente da sempre - convivono con quella realtà e quella storia. Ci sono stato a Poggioreale, per poche ore. Diciannove, per l’esattezza.

Una notte, una mattinata, fino al tardo pomeriggio-sera, di qualche mese fa. Accolto in luogo ameno, freddo, scassato; prima in un’orribile stanza, da solo, con una terribile puzza di muffa, poi in infermeria per un rapido controllo, e infine in una cella assieme ad altri otto ospiti detenuti; per lo più giovani delle nostre periferie. Otto in una stanza fredda d’inverno e, mi raccontano, di fuoco d’estate. Pochi metri quadrati, occupati da otto letti a castello, un bagno-doccia di fortuna, un piccolo lavello cadente e alcune prese per cucinare, una finestra rotta, utile solo per fumare una sigaretta senza lasciare che la stanza sia pervasa dal fumo.

Una condizione fatiscente, una vergogna, mitigata solo dalla comunanza di esperienze, da una infinita solidarietà, e dalla volontà ferma di tentare una vita normale fra il cibo che le famiglie inviano e che ha sapore di casa, la televisione e la radio sempre accese. E da alcune ore di socialità, con le celle aperte sul corridoio durante la mattinata, poi nel pomeriggio. Un grumo di sofferenza e di dolori, ma al tempo stesso la forza di una comunità, la solidarietà che nasce dal vivere una comune condizione, e spesso destino. Ma anche fonte per un non nulla di violenza inaudita, tensione che si respira nell’aria.

Basta un sospiro, una parola di troppo, un giudizio affrettato per scatenare una violenza senza confini. Rieducare, avviare processi di risocializzazione tra quelle mura è impresa sconfitta in partenza. Figuriamoci per quanti sono in attesa di giudizio per un uso improprio della carcerazione preventiva. In Italia più di 25.000 persone all’anno sono detenute senza giungere neppure alla fase processuale, e tuttavia, la nostra Costituzione sancisce dei diritti, anche per chi ha sbagliato ed è stato condannato.

Fra tali diritti c’è quello di avere un’altra opportunità. E i detenuti che ho incontrato erano pronti a coglierla, se solo fosse stata data loro la possibilità. Che a Poggioreale purtroppo non c’è, nonostante i tanti sforzi compiuti. Per questo indugiare, rinviare ogni decisione, attendere nuovi interventi per ristabilire una struttura più idonea ed ospitale, mi pare impossibile. Non c’è nessuna credibile e concretissima alternativa alla chiusura progressiva del carcere.

Lo so che sembra una provocazione, soprattutto dopo i gravi e ripetuti fatti di cronaca e di violenza che hanno segnato Napoli recentemente. E invece, andrebbe colto proprio questo momento per tentare una rivoluzione culturale. Perché il dramma di una gioventù in formazione sbandata e priva di punti di riferimento, in preda a una violenza cieca è terrificante, ed in più amplificata da mezzi e tecnologie che spettacolarizzano la morte di giovanissimi.

Occorre un luogo dove lo Stato ci sia, certo, per giudicare e punire a nome di noi tutti, ma che al tempo stesso proponga un modello di convivenza diverso, basato sullo stare e sul fare insieme, che dia dignità e considerazione a valori molto diversi dalla violenza, proponga percorsi di formazione e riscatto, faccia del debole un forte. Che crei un ponte fra “dentro” e “fuori”. Quando sono uscito, quei troppi ospiti detenuti avrebbero potuto consegnare alla mia memoria tanti messaggi individuali e personalizzati. Invece ce ne è stato uno solo, collettivo, accorato, corale. Fai chiudere Poggioreale.