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di Viviana Lanza

Il Riformista, 14 maggio 2022

Dieci anni di indagini e processo non saranno sufficienti per avere una risposta dalla giustizia. Cosa realmente accadeva nella famigerata cella zero del carcere di Poggioreale rischia di rimanere per sempre in bilico tra due verità: quella dei detenuti che denunciarono le umiliazioni, le botte e le punizioni subite in quella stanza al piano terra del più grande penitenziario di Napoli e d’Italia e quella degli agenti accusati di aver commesso quelle violenze che hanno negato ogni cosa. Si rischia di non avere alcuna verità processuale, nessuna risposta dalla giustizia se non quella del tipo: ci dispiace, il processo è durato troppo, i reati sono prescritti. Sì, per ora tre su cinque sono prescritti. Che le lungaggini eccessive del dibattimento potessero affossare questo processo era evidente già dallo scorso anno.

Inizialmente era sembrato che si potesse imprimere un’accelerazione per vincere la corsa contro il tempo. Illusione. Più della metà dei reati al centro del processo, e relativi ai presunti maltrattamenti denunciati da quattro ex detenuti del carcere di Poggioreale nel lontano 2012-2014, sono prescritti. Forse alcuni degli imputati potrebbero fare richiesta di rinuncia alla prescrizione sperando in una assoluzione nel merito: sostengono di non aver commesso abusi né lesioni. In ogni caso la prescrizione piomberà come una pietra tombale sul processo. E sulla verità. Dodici gli agenti della polizia penitenziaria imputati, cinque gli episodi oggetto delle accuse: si va dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute al reato di maltrattamenti. Tutto, stando alla denuncia di quattro ex detenuti, sarebbe avvenuto nella cella zero, la stanza più temuta del carcere di Poggioreale. Un locale spoglio e grigio, senza arredi, con un letto ancorato al pavimento con delle viti, nessun lenzuolo, nessuna coperta.

Si finiva lì se si osava rispondere a qualche agente della penitenziaria, se si usavano sguardi o parole di troppo. “Era il metodo Poggioreale”, racconta chi ha vissuto il carcere di Poggioreale più di dieci anni fa. La stessa definizione - il metodo Poggioreale - che alcuni degli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, accusati della mattanza del 6 aprile 2020, evocano commentando l’aggressione di massa compiuta ai danni dei detenuti del reparto Nilo del carcere sammaritano. Sta di fatto che “Cella zero” è stato il primo processo che ha puntato un faro su quel che accade nel chiuso di un istituto di pena. Quando dieci anni fa, dopo le prime denunce, fu avviata l’inchiesta l’argomento carcere era un tabù vero e proprio, nessuna particolare attenzione politica, nessuna indignazione collettiva. Non fecero clamore le dichiarazioni degli ex detenuti, il racconto delle notti da incubo vissute quando la “squadretta” di agenti piombava nella cella a regolare i conti della giornata. I passi pesanti rompevano il silenzio della notte, le mazze di ferro battute contro le sbarre della cella annunciavano il detenuto su cui si sarebbe abbattuta la punizione.

In genere, secondo il racconto di ex reclusi, la scelta ricadeva su chi nella giornata aveva avuto da ridire su qualcosa, aveva avuto un battibecco con qualche agente o tra detenuti, aveva fatto un commento di troppo o alzato i toni. Una volta entrati nella cella zero si era costretti a spogliarsi, a fare flessioni con le mani appoggiate al muro della stanza, incassare schiaffi, calci e pugni tra un insulto e un altro, in un caso botte sulla testa con un mazzo di chiavi, per poi restare in isolamento fino a quando i lividi non fossero andati via. Era l’1 giugno 2017 quando i pm, sollecitati ad indagare dalla denuncia dell’allora garante dei detenuti, chiusero le indagini preliminari con una richiesta di rinvio a giudizio a carico di dodici agenti allora in servizio nel carcere di Poggioreale. A dicembre di quello stesso il giudice dell’udienza preliminare accolse la richiesta e fissò il processo. Da allora dibattimento è in corso. E la prescrizione ora incombe sui reati. Fine.