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di Antonio Mattone

Il Mattino, 30 giugno 2023

L’idea era venuta a uno degli undici detenuti del carcere di Poggioreale che partecipano agli incontri su tematiche di attualità e sulla pace promossi dalla Comunità di Sant’Egidio (a Poggioreale e Secondigliano anche Il Mattino svolge un progetto di socializzazione, “Parole in libertà”), ma era stata condivisa con entusiasmo da tutti gli altri. E così è partito l’invito a Liliana Segre. Queste le parole: “Le scriviamo nella speranza che Lei possa onorarci della Sua presenza, per permetterci di proseguire nella crescita morale e umana”. Così iniziava la missiva scritta a più mani, poche righe che facevano emergere una conoscenza della storia della senatrice forse inaspettata da parte degli ospiti di un istituto penitenziario, desiderosi di “ascoltare chi ha subito in prima persona il dramma della Shoah”. Ma erano soprattutto parole di riconoscenza e di rispetto verso chi è riuscito a “trasformare una orribile tragedia personale e familiare in un messaggio lucido e potente che andrebbe diffuso nelle scuole e alle nuove generazioni”.

La risposta non si è fatta attendere. “Cari ragazzi, vorrei chiamarvi per nome ma temo di fare una pessima figura perché i miei occhi un po’ stanchi, non sono stati in grado di leggere correttamente le vostre firme, siete undici, una bella squadra di sentinelle della memoria, eletti sul campo”.

Tuttavia, l’età avanzata e la fatica di andare in giro per il mondo a raccontare l’inferno dei campi di sterminio non le ha consentito di dar seguito all’invito dei detenuti di Poggioreale. Nell’ottobre 2020 Liliana Segre ha deciso di fermarsi e di interrompere i suoi incontri di testimonianza, affidando al documentario “Ho scelto la vita” il racconto sulla sua terribile esperienza.

La senatrice Segre comunque ha preso molto sul serio l’invito ricevuto e ha usato parole di grande premura. C’è un legame molto forte e una sincera riconoscenza verso i detenuti. Lo racconta in uno dei suoi libri, quando all’età di 13 anni prima di essere confinata al lager fu prigioniera con suo padre a San Vittore. La mattina in cui vennero deportati, erano in 600 incolonnati in fila e mentre si incamminavano verso “ignota destinazione”, i carcerati erano affacciati ai ballatoi. “Ci gettarono chi una mela, chi un’arancia, chi una sciarpa. Non avete fatto niente di male ci dicevano, che Dio vi benedica, che Dio vi protegga”. Anche per questo la condizione carceraria è rimasta sempre nei suoi pensieri. Tanto che durate la pandemia, non appena arrivarono i vaccini, si espresse perché i detenuti fossero tra le prime categorie a cui destinarli.

E così, non potendo avere la sua testimonianza diretta, abbiamo visto insieme il documentario che lei stessa ci aveva suggerito.

Alla fine della visione nella saletta del padiglione è sceso un grande silenzio, nessuno riusciva a dire una parola. Il racconto di Liliana Segre era davvero potente e struggente. Alcuni occhi lucidi trasmettevano in modo eloquente sentimenti e stati d’animo.

Ad un certo punto si è rotto il ghiaccio ed è iniziato il dibattito. Qualcuno ha confessato di aver sentito per la prima volta un racconto sulla Shoah. Un altro ha notato che anche in carcere così come nei campi di sterminio non è ammessa la debolezza.

E poi quel tatuaggio con il numero 75190 marchiato sul braccio della Segre a ricordarle che “ad Aushwitz, prima ancora della dignità, si perdeva il nome, si diventava una cosa. La perdita del nome è il primo passo verso l’oblio” ha fatto scattare un’acuta osservazione: “Io ho il tatuaggio con il nome di mia moglie, ogni volta che lo guardo penso a lei ... immagino invece Liliana Segre cosa pensi quando lo vede”.

Alla fine del documentario la Segre racconta un episodio chiave che sarebbe stato decisivo per la sua vita, una scelta da cui sarebbe dipeso il suo futuro.

Nel momento in cui russi ed americani stavano per liberare il lager, il comandante del campo, uno dei più crudeli aguzzini, si spogliò della divisa per mettersi in abiti civili e gettò per terra la sua pistola. In un attimo passò nella mente della Segre il pensiero di vendicarsi, di chinarsi sull’arma e di sparargli. Poteva essere un giusto finale, ma bastò un attimo per capire che lei non era come lui, che aveva scelto la vita e per nessun motivo al mondo avrebbe potuto togliere la vita a qualcuno.

Oggi si uccide per niente, per una discussione per strada, la grandezza di questa donna è stata quella di insegnare il bene nonostante il male ricevuto, commentavano vari detenuti. E pensierosi hanno fatto ritorno nelle loro celle.