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di Massimo Cacciari

La Stampa, 23 settembre 2023

Ha combattuto contro l’immobilismo italiano e la crisi dei partiti guardava all’Europa a ogni passo senza rinnegare nulla del passato. Giorgio Napolitano è una di quelle figure che portano via con sé un’epoca intera. A lui, per tutti i cinquant’anni in cui ho vissuto la sua amicizia, chiedevo solo di aiutarmi a spiegare che cosa dovesse ancora accadere. Ora sembra calato un muro, ora sembra si possa parlare solo dell’irrevocabile. Se ne va, Giorgio Napolitano, e tutte le sue domande restano lì davanti a noi irrisolte. Anzi, più a nessuno sembrano interessare. Dove va la Repubblica, questa la sua prima domanda. E l’altra faccia di questa: dove vai Europa. Dove hai lottato perché andassero, Giorgio? Contro ideologismi, settarismi di partito, demagogie, dilettantismi, hai cercato prima di rifondare su una prospettiva socialdemocratica europea la sinistra italiana, e poi di pensare in questo senso la nascita del Pd. Hai concepito “alla grande” quest’ultimo atto, come una nuova fase di quell’intesa tra culture cattoliche, liberali e socialiste che aveva permesso il grande “compromesso storico” della Costituzione. “Compromesso” tutt’altro che politico soltanto - esso, anzi, si fondava su quello tra borghesia capitalistica e movimento operaio. Non ci sarebbero stati ricostruzione e sviluppo del dopoguerra in sua assenza. Negli anni Ottanta fallì definitivamente il primo tentativo, e il fallimento del secondo è sotto gli occhi di tutti. Il primo rovinò, almeno, nella tragedia dell’89; il secondo nel misero annaspare degli avanzi e degli scarti indigeribili di quelle grandi tradizioni.

Napolitano era del tutto consapevole che l’immobilismo istituzionale che condanna la politica italiana dagli anni Ottanta è superabile soltanto se le forze politiche si liberano dall’idolo della “identità” e dall’illusione di scorciatoie decisionistico-populistiche. Ma viene il tempo in cui perfino quella “identità” è semplicemente perduta, in cui quelle forze si volatilizzano. La crisi dei partiti travolge le stesse istituzioni. Sto parafrasando dalla autobiografia di Napolitano, uscita nei mesi precedenti la sua elezione alla Presidenza e da altri suoi libri immediatamente precedenti. Napolitano avverte: occorre affrontare sul serio il problema della efficacia e della rapidità del processo decisionale, ma rafforzando, non indebolendo, il ruolo del Parlamento. Rafforzando, non indebolendo, il ruolo delle amministrazioni locali. Delegiferando, semplificando, non aggrovigliando ancor più funzioni e competenze. Ben scavato, vecchia talpa - successo tutto esattamente l’opposto.

Napolitano scrive dieci anni fa l’introduzione a una nuova edizione del grande saggio di Thomas Mann, Della repubblica tedesca, un discorso del novembre del ‘22. Lo presentammo insieme a Roma. Quel discorso lo commuoveva: era la testimonianza di una fede incrollabile contro ogni fede, della fede che la democrazia fosse più forte di ogni demagogia e di ogni nazionalismo, che la sconfitta delle potenze europee nella Grande Guerra potesse significare l’inizio di una nuova stagione di intesa e di dialogo. E, coltivando questa speranza, anche Napolitano, come Mann, non revocava nulla di ciò che era stato. No, nessuna resa all’idea che la massa degli idioti si è fatta - e continua a - coltivare del comunismo. Le grandi tragedie non sono pappa per gli invertebrati del senso comune. Comunismo è intelligenza e passione politica per scovare quella porta stretta che ci permetta di accedere al superamento di intollerabili disuguaglianze, alla liberazione dalla costrizione al lavoro servile, comandato. Ma è una strada che si compie con metodo, intelligenza, misura. La lotta a estremismo e volontarismo è l’altra faccia della passione politica di Napolitano, che mai ha “revocato” il suo passato di comunista. Ma Napolitano sa bene che se c’è un futuro questo è europeo. L’Europa è il suo problema, da sempre, ben prima degli importanti incarichi che assume nel suo Parlamento. E all’Europa guarda in ogni passo che compie da Presidente. Il nuovo Nomos della Terra sarà per grandi spazi, costruito dai patti ai quali i grandi spazi tra loro sapranno dar vita. E l’anima dell’Europa politica non può aver radice che in quelle stesse culture che si sono espresse nella nostra Costituzione (semper reformanda, come abbiamo detto). Una visione multipolare della politica internazionale, che preservi l’autonomia di ogni spazio al suo interno; una politica di sicurezza fondata sulla previsione e prevenzione dei conflitti; un’idea di pace che si fondi sulla cooperazione e sulla difesa reale, positiva dei diritti umani. Con quanta sofferenza Napolitano viva l’Europa degli Stati che assistono alla tragedia dell’ex Jugoslavia, che agiscono ognuno per sé, per miopi interessi nazionali nella tragedia dei Paesi del Maghreb, che non riescono a trovare un’intesa in termini di comuni politiche sociali e fiscali, e che solo l’assoluta emergenza, prima il Covid e ora la guerra, spingono a qualche efficace decisione. Con quanta sofferenza viva questa Europa lo sa chi gli è stato vicino e chi l’ha letto per volerlo capire. Identico immobilismo istituzionale in Italia e in Europa. Ogni singolo Stato riflette l’insieme e viceversa. E sempre più l’Europa procede verso i margini del globo. Un destino? Un destino che Napolitano non accetta. Un destino contro cui trova sempre nuovi motivi di contraddizione. E a questi motivi uno come me si è nutrito e si nutre. Ma ora che non c’è più, forse rimangono soltanto le sue sconfitte. Bene navigavi, naufragium feci. Questa è la lezione più grande.

Napolitano ha navigato bene, con coerenza, con lucidità, con passione e intelligenza critica e auto-critica in uno. È stato sconfitto? No, la sua navigazione è la sua vittoria. La strada che ha indicato rimane la sola percorribile. Si è fatta anche impossibile? Sarà, ma non cambia. È quella che abbiamo il dovere di tentare e ritentare. È il solo modo di vivere con disincantata dignità anche ciò che vuole il destino. Per non esser trascinati come schiavi in catene al seguito del suo carro.