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di Giansandro Merli

Il Manifesto, 8 febbraio 2024

Nicola Cocco, infettivologo che lavora nelle carceri milanesi e fa parte della Società italiana di medicina delle migrazioni, spiega tutte le falle del rilascio dell’idoneità al trattenimento. Fuori visite sotto la pressione delle questure, dentro psicofarmaci prescritti a caso. Nicola Cocco è medico infettivologo, ha 40 anni e sa bene cosa significa fornire assistenza sanitaria in contesti di detenzione: da tempo lavora nelle carceri milanesi. Si è occupato anche di Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr): in quello di Ponte Galeria, domenica scorsa, Sylla Ousmane si è tolto la vita.

Già a Trapani la psicologa del locale Cpr aveva rilevato la drammatica situazione personale e relazionale di Ousmane. Ma una relazione dell’Azienda sanitaria provinciale, sulla cui base la questura ha confermato il trattenimento, negava ogni criticità. Com’è possibile?

Per autorizzare l’ingresso delle persone migranti nei Cpr è necessaria una “valutazione di idoneità alla vita in comunità ristretta”. È richiesta dall’articolo 3 della direttiva Lamorgese di maggio 2022. La valutazione deve farla un medico del Sistema sanitario nazionale. In concreto succede che prima del Cpr il migrante passa da un ospedale o pronto soccorso, dove un medico che non conosce nulla della sua situazione deve visitarlo in 5/10 minuti sotto la pressione delle forze dell’ordine. Di fatto nella stragrande maggioranza dei casi l’idoneità attesta solo l’assenza di patologie contagiose come tubercolosi o covid.

La valutazione dovrebbe servire a tutelare il migrante, verificandone la compatibilità psicofisica con il trattenimento, o solo a evitare che possa essere vettore di virus?

Tutte e due, anche se la ratio della direttiva Lamorgese era soprattutto evitare ingressi di persone con criticità fisiche o mentali. Ma le valutazioni sono fatte di fretta, con le questure che pressano le direzioni sanitarie. Mancano esami importanti, come quelli del sangue.

Dal punto di vista psicologico ci sono accertamenti?

Nulla. Perciò, per tornare alla prima domanda, nei Cpr finisce anche chi ha vulnerabilità psichiatriche che nessuno segnala.

I Cpr sono gestiti da privati. Garantiscono il diritto alla salute?

Assolutamente no. Gli enti gestori assumono il personale sanitario con contratti di libera professione che non prendono in considerazione la formazione di medici e infermieri, né in generale né rispetto al lavoro con persone migranti o in contesti di detenzione. Di fatto servono solo al titolare dell’appalto per spuntare la casella sanitaria. Il diritto alla salute non viene in nessun modo garantito.

Lei ha visitato il Cpr di Milano con l’ex senatore Gregorio De Falco, da quelle ispezioni è partita l’inchiesta che ha portato al sequestro. I pm hanno documentato l’abuso di psicofarmaci. Li prescrive uno psichiatra?

Non ci sono psichiatri. Come evidenziato anche dal caso di Ousmane, da capitolato è presente solo la figura dello psicologo. Gli psicofarmaci sono prescritti direttamente dai medici degli enti gestori e questo provoca due grossi rischi per le persone detenute. Il primo relativo al fatto che quella terapia può non essere adeguata perché il personale che la somministra non è specializzato. Il secondo che si generi farmacodipendenza. Il Rivotril è tristemente famoso tra i detenuti nei Cpr proprio per questo. Simili prassi sono da condannare anche da un punto di vista deontologico: i farmaci non vengono usati per curare problemi diagnosticati da uno psichiatra ma per sedare le persone. Come “camicia di forza farmacologica”. Così il medico diventa ancillare alla polizia per calmare gli animi in casi di proteste, risse o autolesionismo.

Quei medici si espongono a conseguenze penali?

Io sono un infettivologo, non un oncologo: se somministro un chemioterapico e causo dei danni o la morte di una persona finisco in tribunale per imperizia o negligenza. Non capisco perché per l’uso improprio di psicofarmaci non debba valere lo stesso. Nell’infermeria del Cpr di Milano c’era un foglio con i dosaggi massimi degli psicofarmaci: è evidente che serve al medico o infermiere di guardia per sapere fino a dove si può spingere.

Con la Società italiana di medicina delle migrazioni avete lanciato un appello per invitare i medici a negare l’idoneità alla vita nei Cpr. Richiesta simbolica o possibilità concreta?

La campagna serve in primis ad aumentare l’informazione sui rischi per la salute di chi è detenuto nei Cpr. Poi si propone di fornire strumenti ed evidenze affinché il singolo medico certificatore possa decidere in maniera fondata di non riconoscere l’idoneità alla vita in quei posti. L’articolo 32 del Codice deontologico dice che il medico deve proteggere i soggetti vulnerabili da contesti o situazioni in cui la loro salute è in pericolo. Ci sono tutti gli estremi per non prestarsi a far rinchiudere le persone nei Cpr.