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di Andrea Pugiotto

L’Unità, 13 febbraio 2024

Il saggio del presidente emerito della Consulta e della giornalista denuncia le morti dietro le sbarre, ricorda i diritti costituzionali dei detenuti, critica l’introduzione di nuovi reati e il paradigma vittimario. Facile intuire perché crei qualche problema all’attuale esecutivo.

1. Alla fine, le scuse ufficiali sono arrivate: “L’amministrazione penitenziaria ritiene un onore, un privilegio, avere il presidente Amato che venga a parlare negli istituti, con i detenuti, con la polizia penitenziaria”. Così, davanti alla Commissione Giustizia della Camera, il Capo del DAP Giovanni Russo ha inteso chiudere una vicenda opaca e surreale: il divieto d’ingresso nel carcere di San Vittore opposto a un Professore emerito di Diritto costituzionale, due volte Presidente del Consiglio, più volte Ministro, già Presidente della Corte costituzionale, coautore con Donatella Stasio (per cinque anni attivissima portavoce della Consulta e giornalista di vaglia) del libro Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società (Feltrinelli 2023).

Ricordo, da bambino, che alle mie azioni stupide e maldestre seguiva sempre l’ammonimento della nonna: “Pensaci prima”. Ecco. Più che alle “tre circolari in materia di best pratices predisposte dal capo del Dipartimento in febbraio, marzo e aprile 2023” (invocate burocraticamente dal vertice del DAP), sarebbe bastato appellarsi al buon senso per evitare lo sgarbo istituzionale. Anche perché le circolari non sono fonti del diritto e la prassi che ne deriva non è la Grundnorm kelseniana. Caso archiviato, dunque. Merita, tuttavia, un supplemento di riflessione. Posso esibire alcuni titoli per dire la mia.

2. Il primo è che, autorizzato dal DAP, il 18 gennaio scorso sono stato invitato a San Vittore. Dunque, so per esperienza diretta cosa significhi incontrare la sua comunità carceraria. Vuol dire confrontarsi con un vivace collettivo, nato sulla scia del “Viaggio nelle carceri” della Corte costituzionale. Si è dato il nome di “Costituzione Viva”, perché fa della Costituzione un ponte tibetano tra il “dentro” e il “fuori” dal carcere. Sotto la guida sapiente di un volontario che da 25 anni lavora con i detenuti di San Vittore (Antonio Casella) e di un costituzionalista di valore (Michele Massa), il collettivo legge, studia, discute il testo costituzionale; lo usa come metro di quell’istituzione totale che è il carcere; pone legittime domande ai suoi interlocutori. Me le sono sentite rivolgere quelle domande, e ho percepito l’inadeguatezza delle mie risposte. In precedenza, era capitato ai giudici costituzionali Marta Cartabia, Francesco Viganò, Giuliano Amato (ritornato a San Vittore nel 2022, dopo il suo mandato alla Consulta) e a Carlo Renoldi, allora capo del DAP.

È un lavoro serio, non improvvisato, che prosegue da cinque anni, in cui - a pieno titolo - rientrava l’incontro programmato per il 6 febbraio, poi vietato a ridosso dell’evento. Solo l’affannata ricerca di un pretesto, quindi, spiega la giustificazione ministeriale sulla necessità di consentirne “un corretto inquadramento all’interno di un progetto formativo o trattamentale”.

Ricucire la fiducia reciproca attraverso la Costituzione che “non conosce muri perché appartiene a tutti”. “Conoscere l’umanità del carcere, farsi conoscere da quella umanità, interloquire con essa”, attraverso l’esperienza concreta dell’incontro. Così scrivono Amato e Stasio, de-scrivendo anche il senso della mia giornata carceraria trascorsa nella rotonda di San Vittore, aperta a panopticon sui suoi sei “raggi”. Manca un timbro, e tutto ciò va in fumo. Fatico a immaginare l’imbarazzata difficoltà del direttore Giacinto Siciliano, capro espiatorio dell’accaduto, chiamato a spiegare l’incomprensibile ai reclusi nel suo istituto: proprio lui che a San Vittore, come in precedenza a Opera, ha sempre agìto - con saggia professionalità - per aprire il carcere al mondo esterno.

3. Ho un altro titolo per dire la mia: la lettura attenta del libro di Amato e Stasio, che ho recensito su questo giornale (l’Unità, 27 dicembre 2023). Dunque, so bene come racconti il carcere nelle sue pagine. Sfogliarle, aiuta a capire perché è accaduto quel che è accaduto. Il libro denuncia le morti dietro le sbarre (“Perbacco se è inammissibile morire in carcere per mancanza di cure adeguate!”). Lamenta una grave lacuna nella formazione dei giudici (“Non è un mistero che la gran parte dei magistrati non sia mai entrata in un carcere”) e la burocratizzazione dei Tribunali di sorveglianza (dalle nuove leve “percepiti come uffici residuali, di serie B, tante grane e poche medaglie”). Insegna che si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti (“La restrizione della libertà personale è restrizione della sola libertà personale, non di tutto ciò che la persona esprime”). Riconosce che il detenuto, privato della libertà personale, resta titolare di diritti (“Le altre libertà non dovrebbero essere incise, se non in modo riflesso. E un riflesso è un riflesso. Non può diventare annullamento di quei diritti”). Il libro parla anche di ergastolo ostativo che, dopo trent’anni, “la Corte, con le sue decisioni, ha mandato in soffitta”, poi de facto ripristinato dal governo Meloni con il suo primo decreto-legge. E critica come “una cattiva abitudine, da cancellare”, quella del Parlamento di aggiungere sempre nuovi reati alla black list dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Quanto alla cultura del marcire in galera (cara al cattolico vicepremier leghista), “è di sicuro contraria anche alla religione prevalente nel nostro paese, che insegna a trovare nell’altro traccia del Dio fatto uomo. […] Non è detto che sempre la si trovi. Ma va cercata, senza mai buttare via la chiave”. Infine, contro il paradigma vittimario che confonde vendetta e giustizia, il libro ricorda che questa “non è linciaggio. E il “fine pena mai”, anche quello che accompagna l’ex detenuto ormai fuori dal carcere, invece è linciaggio”.

Confrontati con lo Zeitgeist, suonano come giudizi eversivi. Invece sono valutazioni costituzionalmente orientate, a prendere sul serio l’art. 27 Cost. Non è un caso se il partito della premier vuole cambiarlo (AC 285), snaturandolo. Magari combinandolo con il riferimento strumentale ai diritti e alle facoltà delle vittime del reato, da inserire nell’art. 111 Cost. sul giusto processo (AC 286).

4. Basta questo florilegio per capire le ragioni dell’accaduto. Dietro la coltre fumosa di giustificazioni burocratiche, collassate una sull’altra, s’intuisce che “è il libro stesso a provocare qualche problema”, come adombra Mauro Palma (La Stampa, 6 febbraio). La sua “colpa” è di mettere in circolo la grande idea liberale della Costituzione come “scudo” a difesa di chi non ha difese, come i troppi detenuti che oggi sono in pericolo (e non un pericolo). La cella di un condannato è l’ultimo posto dove immaginare di avviare un cambiamento. E invece proprio da lì tutto può nascere, se è vero (com’è vero) che sono stati proprio alcuni reclusi, con i loro ricorsi, a ottenere dalla Corte costituzionale tutele e diritti negati dal legislatore. Sullo sfondo, emerge così la partita che la maggioranza governativa si prepara a giocare a dicembre, quando le Camere riunite eleggeranno quattro giudici costituzionali. Anche di questo il libro parla, e molto, invitando i cittadini a “vigilare affinché i Governi non si approprino delle loro Corti e, per questa via, dei loro diritti”. Fino a definire sovversivo “chi mette a repentaglio la rule of law e l’indipendenza delle Corti che la rule of law tutela”. Sono tesi ripetute in recenti interviste di Amato e negli interventi di Stasio su La Stampa. È qui che il dissenso del Governo si fa censura delle idee altrui e stigma verso chi le esprime. Altri ne sarebbero intimiditi: conoscendo entrambi, escludo accada ai due coautori.

5. Le parole “libro” e “libertà” hanno una comune radice latina: “liber”. Ecco perché certi libri non possono entrare in prigione: come questo o come le storie di umanità cancellata in carcere, che Donatella Stasio ha raccontato con Lucia Castellano (Diritti e castighi, il Saggiatore 2009). Con la sua decisione inappropriata, l’amministrazione penitenziaria ha l’unico merito di rammentarci questa formidabile matrice semantica.