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di Daniele Mastrogiacomo

La Repubblica, 21 luglio 2023

In piazza contro il governo Boluarte si affrontano manifestanti e oltre 8mila agenti. Dallo spettro del terrorismo alla ambientale, stavolta le tensioni sono rientrate ma resta l’incognita di quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni.

Qualche tafferuglio, un cordone della polizia sfondato. Una decina di feriti, una manciata di fermi. Partono i primi candelotti lacrimogeni, niente proiettili di gomma e proiettili veri. Volano le pietre, gli agenti alzano gli scudi. La folla riesce a superare le barriere di ferro piazzate dagli agenti, raggiungere la sede del Congresso, lanciare qualche slogan. Ma tutto finisce lì. La polizia spinge, piano piano; costringe la gente ad arretrare. La riporta verso i punti da dove era partita. La manifestazione si scioglie come previsto: alle 20 in punto.

Un pareggio tra governo e opposizione - Si chiude con un pareggio la sfida della terza “Toma de Lima”, la presa della città. Sfuma l’assalto al Potere. Nessuna violenza, rispettata la libertà di manifestazione: escono tutti vincenti. Governo e opposizione. Ma il problema rimane. La presidente Dina Boluarte, come il Congresso che la sostiene tra mille compromessi, non godono della fiducia della gente. Tutti vogliono un cambio, nessuno sa come. La prima donna alla guida del Perù cercherà di riunificare un paese lacerato dalle 60 vittime, ancora senza giustizia, morte durante le rivolte del dicembre e gennaio scorsi. Lo farà con il discorso che dovrebbe pronunciare il giorno dell’Indipendenza dalla Corona spagnola, il prossimo 28 luglio.

Alle 15, piazza San Martín, cuore storico di tutte le manifestazioni, è piena di gente. Ci sono altri quattro punti di concentramento, anche questi affollati. Dovranno compattarsi, una tattica a ragnatela. La polizia lo sa. Ha imparato dal passato. Non si farà trovare impreparata, ha mobilitato 8 mila agenti. Ha chiuso con le transenne fisse e mobili gli accessi al centro storico dove sorgono i palazzi del potere. Eviterà di essere stretta nella tela.

Lo spettro del terrorismo - Non è chiaro quanti siano i manifestanti. Ventimila, chi dice 15 mila. Le notizie sono confuse, i media sono cauti. Le due volte precedenti sono stati accusati dal governo di aver soffiato sul fuoco, ritenuti quasi corresponsabili del sangue versato. Tv e giornali non godono di grande fiducia tra chi ha raggiunto Lima dai quattro angoli del paese, è sceso dalle montagne della Sierra, risalito dalla giungla amazzonica, uscito dai villaggi che punteggiano le Ande.

Il ministro dell’Interno e quello della Difesa hanno agitato fino a due giorni fa lo spettro del terrorismo. La marcia, avvertivano, potrebbe essere infiltrata da provocatori al servizio di Sendero Luminoso. Gente che vuole il caos, che punterà allo scontro, che non ama il proprio paese. Ma è solo spauracchio. È roba passata. Non c’entra nulla. Paure strumentali. Propaganda. Come l’eterno ritorno dei comunisti, di Cuba, del Venezuela di Maduro.

Chi protesta qui, almeno la maggioranza, è semplicemente stufo di questo sistema. Ci sono stati 6 presidenti in sette anni. Quattro sono agli arresti. Chi a casa, chi in comode caserme. Un ex, come Alan Garcia, si è suicidato. Un altro nome di peso, come Alberto Fujimori, sconta una condanna per strage e lesa umanità. Gli altri sono spariti. Una media di 15 mesi a testa. Uno ha resistito una settimana. Un record. Sembra una burletta.

Ma il Perù è ricco, ha la più grande riserva monetaria dell’America Latina. Ha materie prime, ottimi rapporti con la Cina, ha un potenziale da vendere. Deve stabilire ancora come. La corruzione, alimentata dal benessere che scorreva a fiumi, lo ha impoverito. La gente ha lavorato e prodotto come formichine operose, ma alla fine si è fatta prendere la mano dalle tangenti. Ha smesso di produrre, di crescere, ha solo corrotto e si è fatta corrompere.

Gli elettori hanno la loro responsabilità. Votano quegli uomini e quelle donne che adesso vogliono sfiduciare. Lo hanno fatto per cinque volte negli ultimi dieci anni. Ma il Congresso, a differenza del Presidente, è inamovibile. E’ il vero regista della partita. Decide quando e come scalzare il capo del governo. Lo ha fatto anche con Pedro Castillo, indotto a proclamare un autogolpe che lo ha portato in carcere. Potrebbe farlo con Dina Boluarte che ha preso il comando senza voti, solo perché così prevede la Costituzione. La tengono in sella per evitare di andare alle elezioni che rischierebbero di mandare tutti a casa.

Lavorare per mangiare - Così tutto cambia e tutto resta uguale. Deputati e senatori continuano a legiferare, mentre il resto viene travolto. Perché nel Congresso ci sono i fondi pubblici, quelli che drenano consensi, che assegnano gli appalti, che soddisfano i vari collegi elettorali. Soldi e potere. La storia di sempre. Ma la storia non funziona più così.

È cresciuto il numero di poveri e poverissimi. Sono la maggioranza. La classe media, motore del miracolo economico degli ultimi vent’anni, è sparita. Prima il Covid, poi la convinzione che tutto sarebbe stato diverso, ci hanno messo del loro. Sono arrivati gli echi della guerra in Ucraina, è spuntata l’inflazione, i pezzi al consumo sono aumentati, i salari hanno perso il loro potere d’acquisto. La gente ha bisogno di lavorare. Più di prima. Deve mangiare. Soprattutto gli informali, quelli costretti ad andare per strada ogni giorno e raccattare qualcosa per tirare avanti.

Una marcia che punta a conquistare Lima significa riposo obbligato. E’ un lusso che la maggioranza dei peruviani non si può permettere. Chi poteva si è chiuso in casa, è andato nelle seconde case al mare o in campagna. Gli altri devono fare quello che sono obbligati a fare sempre. Chi non manifesta, afferra il suo carretto, anche un semplice sgabello, si piazza lungo i marciapiedi, e si sgola per vendere ciò che ha comprato a credito. Li vediamo anche ora mentre si affannano tra i vicoli del Barrio Chino, il quartiere quartiere cinese immerso nel cuore della città vecchia. Ci siamo rimasti tre giorni, in attesa della marcia.

E’ la vera Lima. Quella antica assorbita dalla nuova. Sono a due passi da chi ha deciso l’assalto al potere. Non hanno tempo per solidarizzare e magari unirsi a chi protesta. Potrebbe accadere di tutto, ma loro resistono sullo spazio che hanno conquistato a fatica, proponendo di tutto. Frutta, stracci, cibo, orologi contraffatti, musica, video, unguenti, giocattoli, zainetti, libri e matite, spremute d’arance, di ananas e anguria. Il mercato della sopravvivenza. Ricorda le domeniche d’estate a Ipanema. Una folla scende dalle favelas e apre il più grande suk sulle spiagge di Rio.

Il ritorno del Niño - C’è il sole, fa caldo. Non è normale. Di solito, in questo periodo d’inverno, Lima è avvolta da una nebbia e bagnata dalla garúa, la pioggerellina fitta che ti entra nelle ossa. Dicono che dipenda dal Niño. Quest’anno si è fatto rivedere. Un problema soprattutto per i pescatori: l’acqua è più calda ma il pesce che affolla questo tratto di Pacifico cerca le correnti fredde. Quindi, è sparito. Sono gli stessi che guidano uno spezzone dei cortei pronti a sfilare. Lamentano i danni provocati un anno fa dal travaso di petrolio che ha inquinato quasi 100 chilometri di mare e costa a nord di Lima. Non sono stati ancora compensati come promesso. Poco lavoro e pochissimo pesce.

Protestano le comunità indigene aymara colpite da altri inquinamenti in Amazzonia. Si lamentano i contadini di Puno e Tacna, a sud est, minacciati dalla concorrenza boliviana e cilena; i commercianti di Piura, nel nord, invasa dai grilli e accerchiata dalla dengue che uccide e mette in fuga i turisti. Urlano quelli del Cusco che si sentono sempre ai margini del potere sebbene siano il cuore del tesoro archeologico incaico. Protestano i maestri di scuola e gli edili, minatori e infermieri, agricoltori e autotrasportatori. C’è chi insiste nel chiedere la liberazione di Castillo, chi giustizia per le vittime, chi la condanna degli ultimi protagonisti dell’ennesimo scandalo per corruzione. Chi punta a una modifica della Costituzione, chi elezioni generali, chi lo scioglimento del Congresso. Sono divisi e insieme uniti.

Travolto il muro di agenti - Quando cala il buio inizia la marcia. Saranno ventimila. Premono verso il palazzo del Congresso che è a quattro incroci da piazza Dos de Mayo, il punto di concentramento previsto. Un cordone compatto di polizia sbarra la strada. La folla avanza, preme, sfonda il muro di agenti che arretrano senza caricare. Sparano qualche candelotto lacrimogeno per allentare la pressione. La folla urla e inveisce, volano sassi e bottiglie. Ma non ci sono impatti. La polizia arretra, le inferriate messe a protezione cedono sotto la pressione.

E’ accaduto così anche in passato. Tutti temono che scatti la guerriglia. Non sarà così. La marcia prosegue senza scossoni fino all’altezza del Congresso, si disperde, si raccoglie di nuovo. Resta qualche minuto davanti al palazzo blindato da barriere e centinaia di poliziotti. Gli elicotteri volteggiano e illuminano dall’alto questa folla che ondeggia e quindi arretra, spinta, quasi accompagnata, da altri agenti che invitano a tornare al punto di partenza.

Non c’è resistenza. Nessuno voleva una manifestazione violenta. Neanche la polizia che doveva dimostrare professionalità, nemmeno il governo che era messo alla prova sotto l’occhio vigile degli organismi internazionali e le associazioni dei diritti umani. Tutto finisce dove era iniziato. Resta l’incognita di quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni. Chi ha fatto ore di viaggio resta in città. Forse per nuove manifestazioni, forse per trattare impegni e soluzioni. La crisi non è risolta. E’ solo rinviata.