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di Marco Imarisio

Corriere della Sera, 10 marzo 2024

A Oulx, sulle Alpi, tra gli operatori che aiutano i disperati: “Molti non hanno idea del gelo che li aspetta in quota. Uno su due ce la fa, chi viene respinto torna e ci riprova”. Nel piazzale della stazione non c’è nessuno. Il bar è chiuso. L’app meteo dell’iPhone fa sapere che siamo abbondantemente sottozero. Sono le 20 della prima domenica di marzo. I quattro ragazzi di colore appena scesi dalla corriera giunta da Torino si guardano intorno sperduti. Due di loro calzano scarpe di tela che al primo affondo nel cumulo di neve ai bordi della strada si inzuppano. I fari della Volante che sopraggiunge ad andatura lenta li paralizzano. L’agente sul sedile accanto alla guida apre la portiera, ma non scende neppure dall’auto. Non chiede documenti, non fa domande. Perché dovrebbe, in fondo sa già tutto, è la solita storia. “Prendete dritto per quel viale, che si chiama Montenero” dice recitando una formula che conosce e memoria, aiutandosi con i gesti e con un francese rudimentale. “Poi quando vedete il cartello girate a sinistra, fate ancora cento metri e siete arrivati”.

Un mondo parallelo - Entrare al Rifugio Massi di Oulx significa scoprire in fondo a questa estrema periferia d’Italia, sulle pendici al limite della Val di Susa così orgogliosa di sentirsi “il punto più lontano da Torino”, un mondo parallelo. E anche un po’ capovolto, se vogliamo. Un mondo dove la Polizia italiana aiuta i migranti a trovare l’indirizzo giusto, e una volta che questi sono arrivati, i volontari si prendono cura di loro, preparandoli all’inevitabile traversata delle Alpi che li attende, insieme al probabile respingimento da parte della Polizia francese. Forniscono a ognuno il giaciglio per una o due notti, acqua e cibo, soprattutto scarpe e indumenti adatti, perché nessuna di queste persone ha la minima idea di quanto possano scendere le temperature in alta montagna. Spesso non ci credono, devono essere convinti a coprirsi il meglio possibile. Ma ogni volta che la Gendarmerie li riporta indietro, e la Polizia italiana li riporta al rifugio, quasi sempre ci riprovano.

Letti e container - La sede iniziale si chiamava Ostello del pellegrino, e in un certo senso è stata mantenuta la denominazione originaria. Nel 2018, di fronte alla crisi indotta dall’apertura della rotta balcanica, un prete di paese, don Luigi Chiampo di Bussoleno, decise che non si poteva più stare a guardare. Tre anni dopo, causa afflusso sempre più forte, il trasferimento nel palazzo accanto, un edificio che accoglieva le colonie estive dei gruppi salesiani. A guardarla da fuori, sembra una caserma, con il cancello automatico illuminato da un faro, con sopra la scritta area protetta. Tre piani, settantadue posti letto, camere da quattro posti. In cortile, due container con dentro altre sedici brande, per le emergenze. Alla fine dell’estate scorsa, pochi giorni dopo l’ennesimo intasamento del collo di bottiglia a Lampedusa, c’erano oltre 340 persone e molti dormivano per terra, nei corridoi. Compresi gli undici operatori, che ruotano in coppia su turni da ventiquattro ore, ai quali si affiancano spesso almeno due volontari. “Accogliamo persone già respinte al confine e persone che rischiano di rimanere bloccate a tremila metri d’altezza. Sappiamo che comunque ci proveranno. Noi cerchiamo di metterli in sicurezza”.

“Avete fame?” - La prima cosa è capire da dove vengono. Con i suoi quattro anni di rifugio, Marco Lis è ormai un veterano. Cinquantasettenne, francescano secolare, quindi laico, prima lavorava nell’edilizia come capocantiere. Ormai sono quasi le 22. La sala mensa al pianterreno è deserta. Mentre parliamo, arrivano i quattro ragazzi, che dopo tanto girare hanno finalmente trovato la strada. La procedura è veloce come ogni cosa che viene ripetuta decine di volte al giorno. “Avete fame?” è sempre la prima domanda. Intanto Ali, l’altro operatore, ex muratore di Bussoleno, si è già portato avanti mettendosi ai fornelli. I ragazzi non hanno appetito. In stanza, allora. “Non si fuma in camera e nei corridoi”. Domani mattina avranno in mano un foglio con le istruzioni per non farsi del male lassù in montagna, avranno vestiti e scarpe adeguate, e si avvieranno verso la piazzola da dove partono gli autobus per Claviere, il punto dove inizia la traversata. L’unica regola per l’identificazione dei migranti è che non esistono regole. “Non prendiamo mai i nomi, non chiediamo documenti, non è il nostro lavoro” dice Lis. “L’unica eccezione fu durante il periodo del Covid, per ragioni sanitarie. Questo è un luogo di accoglienza e di ristoro. Sono tutti di passaggio, non si fermano, e non aspettano”.

Il respingimento da parte dei francesi - La vita del rifugio è scandita dall’arrivo dei treni e degli autobus da Torino. Ore 19, ore 21, ore 23. Poi, si aspetta l’inevitabile comparsa del furgone della Polizia italiana che riporta indietro quelli che sono stati intercettati, con i droni, con i cani, con le cattive maniere, dai loro colleghi francesi. Le stagioni invece sono segnate dai flussi. Nel 2022 erano soprattutto afghani e iraniani, giugno-luglio dell’anno scorso tantissimi sudanesi, quest’inverno quasi sempre nordafricani francofoni.

La bambina afghana - È una notte tranquilla. C’è tempo per parlare. Dal mazzo dei ricordi, Lis estrae quello di una bambina afghana che gli è rimasta nel cuore. Il suo nome, tradotto in italiano, significava libertà. “Erano una famiglia di cinque persone. Arrivati qui nell’inverno del 2021, da Trieste, passando per la Svizzera, un giro assurdo. In quattro giorni, sono stati respinti tre volte. Erano esausti, e disperati. La bimba disegnava pesciolini, e me li regalava. Otto-nove anni, al massimo. Nonostante tutto, aveva un sorriso che, non lo so, non dovresti affezionarti, ma ogni tanto succede, è inevitabile. Al quarto tentativo, passano. All’inizio della primavera seguente, faceva ancora freddo, suona il citofono. Vado io ad aprire. La bambina mi salta in braccio e mi stringe forte, contenta di rivedermi. Avevano fatto il giro. Espulsi, rimandati indietro, avevano presentato di nuovo domanda di asilo in Slovenia, ed erano di nuovo qui, a fare un altro tentativo”.

Il valico in montagna - “Lassù è pieno di africani”. Le vecchie guide alpine al banco del bar Roma di Claviere hanno il gusto del macabro. Ma affermano anche una mezza verità. L’autobus di linea si ferma alle otto di sera, e ne scendono i migranti saliti a Oulx. La rotta alpina comincia qui. Il Monginevro incombe, basta alzare la testa verso le sue cime coperte dal buio per capire che valicarlo è una impresa da disperati. La via bassa comincia alla fine delle stradine del paese, è la più sicura ma anche la più pattugliata dalla Paf, Police aux frontières, che spesso comincia il suo lavoro ben prima del confine, fissato sul colle più alto.

La strada e i cadaveri tra i crepacci - La strada buona è quella più a nord, dietro all’hotel Miramonti, che però conduce fin sullo Chaberton e ai suoi crepacci, e poi obbliga i migranti a piegare verso la Francia attraverso sentieri spesso incerti, sepolti dalla neve. Ogni primavera, al disgelo, viene fatta qualche triste scoperta. Una media di due all’anno, ma durante la stagione della rotta balcanica i ritrovamenti di cadaveri congelati furono molti di più. “Gli afghani sono i più duri da convincere al rinvio della traversata quando il tempo è orribile” sospira Lis. “Rischiano molto, perché sono gli unici a conoscere le montagne. Ma non le nostre”.

L’impegno di Don Chiampo - Don Chiampo ripete spesso, a sé e agli altri, che “bisogna farcela e ce la faremo”. Non si riferisce alla traversata dei migranti, ma alla cura delle loro vite. “Nessuno deve morire di freddo e di stenti sulle nostre montagne”. Prima di maturare la sua fede, era stato operaio in una fabbrica della valle, e prima ancora maratoneta di buon livello. La sua missione, che divide con il lavoro pastorale, accresciuto dalle crisi delle vocazioni che lo hanno portato a “gestire” quattro diverse parrocchie, è questa. “Gestiamo una emergenza che in senso tecnico non è più tale da molto tempo, è solo una realtà di fatto. Noi siamo l’altra faccia della medaglia: si parla sempre dei barconi carichi di centinaia di migranti che vogliono invadere l’Italia. Forse per questo, si tace sulle migliaia di profughi che cercano in ogni modo di andare via, e che sono solo in transito entro i nostri confini”.

“Come rimpiattino” - Nel 2023, oltre quindicimila persone hanno dormito qui almeno per una notte. Tremila in più del 2022, che pure fu l’anno del maggiore afflusso. La statistica basata sulla propria esperienza fa dire agli operatori e ai volontari che uno su due ce la fa. E il novanta per cento di quelli respinti ci riprova almeno un’altra volta, prima di rassegnarsi non certo a restare, ma a trovare un altro varco, altrove, lungo i confini porosi del nostro nord. “Alla fine, questo rimpiattino tra Italia e Francia è una specie di recita fatta sulla pelle dei migranti, che serve solo a far vedere che esistono i controlli alle frontiere” dice Marco Lis.

La riconsegna dei migranti respinti - Manca poco all’alba, adesso c’è la parte grossa del lavoro quotidiano. Pulizia della cucina, preparare la colazione alla cinquantina di ospiti che tra poco si alzeranno determinati a salire sulla montagna, riunione in sala mensa per spiegare loro i pericoli a cui vanno incontro, vestizione. Mentre ci salutiamo, suona ancora il citofono. Dal furgone della Polizia italiana scendono cinque adolescenti africani, molto probabilmente sudanesi, trovati semiassiderati sui sentieri dalla Gendarmerie francese. Dopo l’identificazione da parte della Paf e il “refus d’entrée” sono stati consegnati ai nostri agenti sul piazzale della stazione. Ricomincia il giro, come ogni giorno. Il Rifugio Massi è sempre la casella di partenza e quella a cui si ritorna, nel gioco della nostra ipocrisia.