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di Giancarlo Visitilli

Corriere del Mezzogiorno, 12 aprile 2024

Chissà come si sarà sentito Akim, quando ha ascoltato le parole del ministro della Scuola pubblica italiana (e non di altro), Giuseppe Valditara: “La maggioranza degli alunni in classe sia italiana”. Cosa avrà pensato Gioele, bambino palestinese, che fatica a pensare “alla nonna in guerra, se vive ancora, non abbiamo notizie di lei da molto tempo e mia madre piange”, quando deve fare i conti con la sua imbarazzante estraneità in una classe in cui le parole di un ministro (di un ministro, non di un coetaneo di Gioele!) gli ricordano che è straniero, perché è in Italia e frequenta una classe di scuola italiana. Nella storia, ogni volta che si fa pesare agli altri la propria estraneità, diversità, “anormalità”, si realizza il razzismo.

La si chiama separazione, in Italia, apartheid in Sudafrica, la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica, rimasta in vigore fino al 1991. Il suo iniziatore, Daniel François Malan, fu anche lui un ministro. A debellarla fu Nelson Mandela, nel 1994, quando divenne primo presidente sudafricano non bianco, dopo aver scontato 27 anni di carcere per la sua lotta al segregazionismo razziale. Senza alcuna ombra di dubbio, l’unica positività della scuola italiana, in questi ultimi vent’anni, è stata la bellezza di vedere colorarsi le squallide aule scolastiche, attraverso i colori della pelle di molte studentesse e studenti. Mediante il racconto dei diversi credo religiosi che ci sono, fra musulmani, cristiani e tante altre fedi, dai Protestanti ai Testimoni di Geova.

La meraviglia di avere studenti che non fanno fatica a raccontarsi al femminile o viceversa. E senza che qualcuno, almeno nella scuola, possa credere che esista una “teoria gender”. A scuola insegniamo quello che dovremmo sapere tutti: che per esempio, nelle centinaia di dialetti africani, l’aggettivo “straniero” lo si usa solo per le cose e gli oggetti, non per le persone. Bisognerebbe dire a Valditara che noi insegnanti, ma così anche i presidi, i bidelli, tutti noi nella scuola, ci sforziamo di far sentire Persone tutti. Meritevoli tutti. Eccellenze tutti.

A prescindere dal loro colore di pelle, dalla loro religione, sessualità o appartenenza politica a un partito o un altro. Perché crediamo che le aule scolastiche siano ancora l’unico baluardo, che difenderemo con le unghie e con i denti, dove insegnare lo stupore, la meraviglia, gli occhi sgranati e le bocche aperte di umani che, di fronte a qualsiasi forma di diversità, si emozionano, piangono, ridono e cercano di confondersi, fondersi e “sporcarsi” con gli altri.

In occasione di questa breve riflessione, ho interpellato alcuni presidi e tutti, unanimemente, mi hanno detto di essere in disaccordo con il ministro e le sue classi di transizione. Non accontentandomi, fuori da una delle scuole di Bari, al quartiere Libertà, ho chiesto a una studentessa: Nella tua scuola ci sono stranieri? E lei, dieci anni, mi ha risposto: No, ci sono solo bambine come me. Mi sono vergognato di averglielo chiesto, perché è una domanda stupida. E, per giunta, per quelli come me che insegnano italiano, la parola “straniero” non può esistere per le bambine, i bambini e gli adolescenti. Neanche per i ministri. Quelli adulti e cittadini del mondo.