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di Francesco Billari*, Anais Ginori, Antonello Guerrera, Tonia Mastrobuoni

La Repubblica, 23 aprile 2023

Altro che temuta “invasione” degli stranieri. E quale “sostituzione etnica”, tanto per riprendere l’allarme-shock lanciato nei giorni scorsi dal ministro di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida. I Paesi trainanti del Vecchio Continente hanno saputo - e non da ora - tradurre in vantaggio i flussi migratori. Senza voler dipingere a tutti i costi scenari idilliaci, Germania, Regno Unito e Francia hanno frenato così il preoccupante calo della natalità, riuscendo a creare più lavoro e diminuendo il deficit, zavorra di ogni nazione.

Gli immigrati “sostituiscono” i bambini non nati? Domanda scomoda ma non illegittima, per la scienza. Le Nazioni Unite, in un rapporto del 2000 divenuto celebre tra gli studiosi di popolazione, si chiedevano infatti se e a quali condizioni l’immigrazione sarebbe stata una soluzione alle sfide dell’invecchiamento della popolazione e al declino demografico. Da allora, la replacement migration è entrata nel gergo accettato dai ricercatori, in modo ben distinto però dalle teorie sulle cospirazioni che parlano senza fondamento scientifico di sostituzione etnica.

La ricerca dimostra che una maggiore immigrazione può rallentare o addirittura invertire i problemi causati dal declino delle nascite. Un importante esempio: nel secondo dopoguerra il Nord-Ovest del nostro Paese ha avuto una fecondità sotto i due figli per coppia, livello raggiunto solo per meno di un decennio durante il baby boom degli anni ‘60. Per questo, senza la replacement migration, il Nord-Ovest avrebbe avuto quasi 5 milioni di abitanti in meno al 2001, e un terzo anziché un quarto di ultrasessantenni.

La differenza l’hanno fatta le migrazioni interne, soprattutto dal Sud e dalle isole, che nel XX secolo avevano braccia, cuori e teste da offrire. Come sappiamo, il processo di integrazione non è stato semplice, ed ha anche generato problemi e tensioni, talora intolleranze. I ristoranti meridionali si sono però moltiplicati a Milano, e poi in tutto il Nord.

Soprattutto, la dinamica virtuosa della demografia è stata decisiva nel boom economico che ha fatto decollare le aree più ricche del Paese. Oggi però, le migrazioni interne non sono più sufficienti: com’è ormai noto, da anni è l’Italia intera a dover affrontare i “buchi” lasciati dal calo delle nascite. In modo poco governato, anche per questo è aumentato velocemente il numero di immigrati dall’estero.

Per capire dove siamo oggi è sempre utile confrontarci con gli altri Paesi europei. All’inizio 2022, l’8,5% della popolazione residente in Italia è classificata come straniera. La Germania è al 13%. La Francia è all’8%, ma con più cittadini nati all’estero rispetto a noi, grazie a tassi più elevati di acquisizione della cittadinanza.

Ci sono inoltre le “seconde generazioni”: sia in Germania sia in Francia, gli uffici di statistica hanno stimato la quota di residenti che hanno almeno un genitore immigrato, rispettivamente l’11 e il 13%. Si aggiunga che il 10% dei francesi sono di “terza generazione”, con almeno un nonno immigrato. Si sono create inevitabilmente coppie miste, come sanno molti italiani con parenti nei due Paesi, dove noi siamo stati il principale Paese di origine fino agli anni 60.

La replacement migration è stata, e presumibilmente continuerà ad essere, un ingrediente chiave per lo sviluppo economico delle economie avanzate, che devono fronteggiare l’invecchiamento della popolazione e un calo delle nascite. Per l’Italia, che ha una fecondità sotto il livello di sostituzione delle generazioni da quasi cinquant’anni, solo l’immigrazione consentirà di riempire veramente i “buchi” alla base della piramide demografica dei prossimi anni. Come è successo per le migrazioni interne, questo processo non sarà semplice e genererà tensioni, talora intolleranze. Ancor più che nel caso delle migrazioni interne, sarà fondamentale avere politiche attente e lungimiranti, che guidino questa replacement migration dall’estero e il processo di integrazione in modo attivo, senza subirla passivamente o nascondere la testa sotto la sabbia. La demografia va governata. Per il bene degli italiani.

*Francesco Billari è demografo e rettore dell’università Bocconi di Milano

Sunak, Khan e gli altri ci sono gli stranieri nei posti di comando, di Antonello Guerrera

Londra - Se volessimo riciclare le deprecabili parole del ministro Francesco Lollobrigida, la sostituzione etnica nel Regno Unito è già avvenuta. E, sorpresa, non abbiamo assistito a nessuna catastrofe, a nessun disfacimento dello Stato, a nessun sacrilegio delle tradizioni, o ripudio del patriottismo inglese o scozzese. Anzi, qui oltremanica il multiculturalismo è il tessuto sociale del Paese e sempre più una ricchezza, le istituzioni democratiche sono più solide che mai, i partiti estremisti non arrivano al 2%. E persino il 74enne re Carlo coinvolgerà tutte le fedi alla sua incoronazione. Se non bastasse, abbiamo un primo ministro induista di origine indiana, Rishi Sunak. Abbiamo un sindaco di Londra, Sadiq Khan, musulmano e di origine pachistana, e ora anche il primo premier scozzese musulmano della storia, Hamza Yousaf, al posto della dimissionaria Nicola Sturgeon. Tutti astemi, nella patria dei pub. Non per questo gli inglesi hanno smesso di bere fiumi di birra.

Non solo. Lo stesso partito conservatore, di centro-destra, è incredibilmente multiculturale: nel governo di Liz Truss l’anno scorso c’erano solo 10 ministri bianchi su 23. E persino l’attuale ministra dell’Interno, Suella Braverman, uno dei peggiori falchi di sempre contro l’immigrazione, paradossalmente è nata da genitori indiani di origine africana. Londra poi è fieramente la città più multiculturale d’Europa. Nonostante, come a Birmingham, i bianchi siano scesi sotto il 50% della popolazione, così come in minoranza assoluta sono diventati i cristiani per la prima volta dal Medioevo. E la più grande metropoli del continente è anche la più cool e funzionale, continua ad attrarre cittadini di tutto il mondo nonostante la Brexit.

Certo, le sfide dell’immigrazione sono tante e talvolta complicate, fuori Londra le città sono molto più bianche e talvolta più intolleranti, l’immigrazione massiccia negli anni Novanta (soprattutto dall’Est Europa), approvata senza filtri da Tony Blair, ha generato tensioni tra comunità e molto probabilmente è stata la causa principale del voto antisistema per Brexit. Ma il virtuoso esempio britannico dimostra come sia insensato abbandonarsi a fobie e complottismi. E dopo l’uscita dalla Ue, il Regno Unito ora ha disperato bisogno di migranti per colmare oltre un milione di posti di lavoro, vacanti da un anno e che gli inglesi non vogliono fare.

Migrante un francese su dieci. E lo ius soli? In vigore fin dall’800, di Anais Ginori

Parigi - “Da quando si contano gli stranieri, cioè dai tempi del Secondo Impero, non ci sono mai stati così tanti immigrati come oggi”, spiega Didier Leschi, direttore generale dell’Office français de l’immigration et de l’intégration (Ofii) e autore del pamphlet “Ce Grand Dérangement. L’immigration en face” che riprende l’espressione del “Grand Remplacement”, la teoria della grande sostituzione, trasformandola nel “Grande Disturbo”, perché anche Oltralpe è un tema di dibattito incandescente.

In Francia la percentuale di immigrati è compresa tra il 9 e l’11 per cento della popolazione francese (a seconda delle rilevazioni), ovvero il doppio rispetto a un secolo fa. Quasi un quarto della popolazione francese ha oggi un legame con l’immigrazione, un dato simile a quello degli Stati Uniti, simbolo del melting pot.

“Accogliamo i perdenti del sistema europeo, coloro che sono stati respinti dai Paesi in cui speravano di stabilirsi o che non volevano rimanere in Spagna o in Italia. Alla fine vengono perché da noi è più facile ottenere lo status di rifugiato”. Il tasso francese di protezione per nazionalità, tra i più alti in Europa, deriva da un’antica tradizione. Sin dall’Ottocento esiste lo ius soli e già la Costituzione del 1793 concedeva la cittadinanza agli stranieri che prestavano “servizi eminenti” alla Nazione. Nei tanti rapporti di denuncia delle Ong non resta molto di quel glorioso passato.

“È vero, non abbiamo posti letto sufficienti per tutti”, ammette Leschi ricordando però che il numero è raddoppiato in cinque anni e le autorità francesi offrono copertura sanitaria e sussidi più elevati rispetto ad altri paesi europei. “È vero - prosegue - ci sono accampamenti con condizioni di vita indegne. Ma è anche perché noi chiudiamo un occhio quando le associazioni distribuiscono le tende per permettere ai migranti di occupare il suolo pubblico”.

È uno dei motivi, dice il capo dell’Ofii, che spiega perché ci sono più accampamenti a Parigi che a Londra o a Berlino. “Significa che sono più accoglienti di noi? Non credo proprio. Al contrario. Sono Paesi dove lo sgombero è quasi immediato. In Inghilterra mendicare è reato”. Talvolta, racconta Leschi, sono i migranti che rifiutano di andare negli alloggi proposti dallo Stato. “A Calais, qualunque cosa facciano le autorità, è più forte la volontà di attraversare la Manica”.

Più arrivi, meno debiti: la ricetta Merkel dà ancora i suoi frutti, di Tonia Mastrobuoni

Berlino - Angela Merkel veniva dalla fisica e amava ragionare con i numeri. E ha sempre giustificato con la demografia la sua scelta di favorire l’immigrazione in Germania. Più migranti vuol dire più lavoro, più figli, meno debito pubblico, in poche parole: un futuro per i tedeschi. E la demografia, alla fine di un quindicennio di grandi cambiamenti, le ha dato ragione.

Prima, la Germania pativa la stessa malattia dell’Italia: una lenta e inesorabile condanna all’estinzione causa invecchiamento della popolazione. Oggi oltre un quarto delle persone che vivono in Germania, 21,6 milioni, ha origine straniera secondo Destatis, l’Istituto tedesco di statistica. Tra questi il 20% ha meno di 15 anni, contro il 10% dei tedeschi. Se si guarda invece agli over-65, è il contrario. Sono anziani un quarto dei tedeschi e appena il 10% di chi ha origine straniera. E oltre ad essere in media più giovani, i migranti fanno più figli e sono chiaramente destinati a mantenere gli anziani tedeschi. Altro che”turismo sociale”, come lamenta la destra più reazionaria, accusando i migranti di scippare sostegno economico alla Germania.

Nel 2011 la Germania aveva registrato il più basso tasso di nascite dal 1946. Nel 2019, invece, dopo due grandi ondate di immigrazioni, i nuovi nati in Germania hanno registrato un record che non si vedeva dal 1972. Un’inversione di tendenza impressionante, avvenuta nel giro di soli otto anni. Come diceva Gene Wilder in Frankenstein Jr: “Si può fare!”

Negli ultimi quindici anni la Germania ha vissuto due fasi di immigrazione forte. La prima dopo la crisi finanziaria e dei debiti del 2007-8, con nuovi ingressi “soprattutto dal Sudeuropa” - dunque Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. Ad essi si sono aggiunti, dal 2011, immigrati provenienti dai nuovi Paesi dell’Est Europa.

La seconda impennata di arrivi in Germania si è registrata dal 2014 con l’emergenza dei profughi siriani, afghani, iracheni, quella che fece dire a Merkel la famosa frase “ce la facciamo”. E uno sguardo ai numeri del picco della crisi, nel 2015, chiarisce che accanto ai profughi extraeuropei in fuga dalle guerre, sono continuati ad arrivare ancora molti europei, in parte da Paesi che oggi sbattono le porte in faccia ai migranti come la Polonia. I primi quattro Paesi di provenienza del 2015, infatti, sono stati la Siria (326.000), la Romania (212.000), la Polonia (190.000) e l’Afghanistan (95.000).