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di Simone Alliva

L’Espresso, 28 agosto 2022

In 22 anni sono morti suicidi 1.280 detenuti. Una strage. Il numero dei suicidi nel 2022 uguaglia già il totale dello scorso anno e il sovraffollamento tocca punte vicine al 200 per cento.

L’ultimo, al momento in cui scriviamo, è un trentenne di Cerignola morto a Foggia nel giorno del suo compleanno. Si è impiccato, come l’italiano di 52 anni che l’ha fatta finita all’interno del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Piacenza.

Arrestato per reati comuni, era in attesa di una decisione del magistrato di sorveglianza e delle autorità sanitarie. Prima di lui era toccato a Alessandro Gaffoglio. Ventiquattro anni e un’infanzia complessa, affetto da disturbi psichici, talvolta faceva uso di droghe.

Il 2 agosto, a Torino, coltello alla mano, ha rapinato due supermercati. La polizia lo ha arrestato ed è finito davanti al giudice per la convalida del fermo. Il primo arresto, il primo giorno in carcere. Una misura cautelare, non una condanna. In cella, Alessandro ha resistito due settimane, poi si è tolto la vita soffocandosi con un sacchetto di nylon.

Qualche giorno prima aveva provato a impiccarsi con le lenzuola. Il contatore delle persone che si sono ammazzate in carcere soltanto negli ultimi otto mesi arriva a 57. Come il totale dell’anno scorso, su 148 decessi. In 22 anni, sono morti suicidi 1.280 detenuti. Una strage. Ma la statistica è una scienza sgarbata, parla per numeri e lascia fuori tutto il resto. Cinquantaquattro suicidi tra le sbarre dovrebbe suggerirci qualcosa, riportarci brutalmente allo stato delle cose.

Ma i numeri non dicono tutto. Non raccontano di chi c’era prima, cosa pensava, come è arrivato spalle alle fiamme di cui David Foster Wallace parla quando dice chi si uccide, chi si butta di sotto è perché ha le fiamme alle spalle, e gettarsi è un sollievo al cospetto del fuoco. I numeri non spiegano nulla. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario per tradurli in un pensiero. E del resto un pensiero ai detenuti non lo dedica neanche questa campagna elettorale che su queste morti non ha speso neanche una parola.

Ma le storie ci parlano. Le storie somigliano tutte a qualcosa che conosciamo bene e che ci riguarda. Dalla casa circondariale di Sollicciano a Firenze arrivano a L’Espresso le voci dei detenuti del reparto maschile. Si differenziano solo nel timbro, nell’intonazione e nelle cadenze. Quelle di Giulio, Yassin, Klodjan, Dorian, Emiliano, Tommaso esprimono tutte lo stesso dolore. Appartengono alle 589 persone costrette in un edificio aperto nel 1983 e che ne dovrebbe contenere massimo 491.

Con una popolazione reclusa straniera pari al 70 per cento, a Sollicciano non ci sono mediatori culturali. Solo una persona presta, su base volontaria, un servizio di mediazione destinato a chi arriva dal Maghreb. Come sottolinea l’associazione Antigone Onlus sono carenti le attività culturali, ricreative e sportive, così come il lavoro. Secondo la relazione del garante per i detenuti Giuseppe Fanfani (relativa al 2021), la situazione di Sollicciano vede un totale di 589 detenuti (meno rispetto al picco di 791 del 2019 ma comunque tanti): di questi 395 sono stranieri. Nel carcere fiorentino la presenza di detenuti tossicodipendenti è a quota 182, il sovraffollamento totale del 120 per cento ín un Paese che conta strutture penitenziarie con indici di sovraffollamento che sfiorano il 200 per cento (Latina 194,5, San Vittore 190,1). Per tentati suicidi, Sollicciano è al primo posto in Toscana, così come per atti di autolesionismo: ben 591. Perché? Per capirlo bisogna affidarsi a chi il carcere “Io abita”.

I reclusi ci prendono per mano e ci accompagnano fin dentro i corridoi curvi, oltre le inferriate azzurre e ci mostrano quello che sempre resta fuori dal cono di luce dell’hashtag trending topic. “Molti di noi hanno capito che con rivolte aggressive, sommosse anche motivate, peggiorano le cose e la riabilitazione che cerchiamo si allontana.

Dunque, proviamo a tenerci informati, leggere, costruire contatti, a scrivere. Abbiamo trovato un decreto del presidente della Repubblica (n. 230 del 30 giugno 2000) che istituisce il trattamento penitenziario”, spiegano a L’Espresso. Ma la distanza che separa quel regolamento della vita in carcere è un baratro e sono gli stessi detenuti a misurarla.

All’arrivo vengono fornite due lenzuola pulite e una coperta, polverosa, bucata dall’odore sgradevole: “Neanche un cane ci dormirebbe sopra”. Cuscini strappati, materassi già pieni di cimici. Non ignifughi. “Qui i detenuti che entrano sani, iniziano ben presto a lamentare dolori alla schiena o alla cervicale. Il cambio del materasso è addirittura un’impresa epocale”. Entriamo nelle sezioni, con le celle che si affacciano nei corridoi: “Sono piene di scarafaggi, topi, cimici, insetti nei letti. Le docce ricoperte di funghi e parassiti. Ci fanno ammalare. A queste si aggiungono infiltrazioni d’acqua, muri scrostati e muffe”.

Molte celle restano al buio. “Non ci sono nemmeno le plafoniere, né le televisioni. Reparti come il transito e l’accoglienza o la sezione numero 1. Mangiamo senza luci, viviamo così, con i cavi elettrici scoperti” Le condizioni igieniche sono oltre il limite: “In celle di pochi metri quadrati, tre persone si devono lavare faccia e denti. E dopo i pasti nello stesso lavandino i piatti e le posate. L’acqua calda permetterebbe un’igiene più accurata, e in inverno una sofferenza minore: ma non c’è”. “Qui a Sollicciano persino le guardie fumano all’interno del carcere. Ci sono detenuti che hanno fatto battaglie contro il fumo passivo: perse ovviamente”.

Non solo blatte, guano e muffe nelle celle. “Le cucine versano in un degrado spaventoso: sporcizia, pozze d’acqua stagnante, insetti, scarafaggi. Difficile mangiare il cibo sapendo dove viene preparato”. Difficile anche sapere cosa si mangia: “I generi in vendita qui allo spaccio presentano prezzi assurdi. Ma non è solo questo: le vaschette che vengono distribuite sono prive di etichette. E questo ci impedisce di capire anche semplicemente che tipo di carne stiamo preparando”.

Non va meglio all’aperto: “Gli spazi somigliano a discariche. Spazzatura, sporcizia, ratti e scarafaggi. Ma cerchiamo di cavarcela, abbiamo costruito attrezzi sportivi con bidoni, pezzi di legno e di scopa”. “Non si può neanche lavorare. Nel mese di maggio hanno lavorato 59 detenuti su circa 600. Le attività alternative al lavoro per tutti gli altri sono consistite in questo: catechismo che ha coinvolto 20 persone, attività teatrale 15 e musicale dieci. Qui ci si ammala”.

È una chiosa costante nelle parole dei detenuti di Sollicciano. Fanno riferimento a un male invisibile e devastante, quello che arriva nel tempo sospeso e che accentua il senso di inadeguatezza, l’inutilità e che porta spesso al suicidio: “Il tempo in carcere è un alternarsi di speranza e rassegnazione. Ci abituano a non decidere nulla, ci deresponsabilizzano. Quando si esce ci si rende conto di quanto in carcere il tempo sia immobile, di fatto i rapporti con la società, con le persone, con i parenti sono come congelati. Fuori si cambia e dentro si rimane fermi. Per questo al momento dell’uscita non mancano le catastrofi: le separazioni, l’allontanamento dei figli, i drammi personali che sfociano a volte addirittura nel suicidio”.

L’ultimo a Sollicciano si è consumato 1’8 luglio. Un uomo di 47 anni, aveva chiesto di essere spostato nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Alle spalle già un tentato suicidio. Era assistente capo della polizia di Stato in custodia cautelare con l’accusa di aver sparato a un gambiano alle Cascine: una volta a casa aveva tentato di togliersi la vita (lo aveva riferito lui al giudice) e altre volte in cella. Ci è riuscito mentre a pochi metri, al Giardino degli Incontri per i colloqui c’erano i vertici del Dap, la politica, il tribunale di sorveglianza a discutere del “senso di umanità” della giustizia. Si è impiccato usando le lenzuola della cella.

È stata la polizia penitenziaria a trovarlo privo di vita, durante il giro del pomeriggio. L’istituto, infatti, come segnala Antigone Onlus nel suo ultimo report, non ha un sistema di sorveglianza dinamica e non è attiva la videosorveglianza per il controllo da remoto. La decisione di non adottare questo sistema è stata giustificata elencando una serie di problemi relativi ai costi di attivazione, al fatto che le telecamere possano essere oggetto di atti vandalici e a precedenti eventi critici che il personale reputa incompatibili con la ratio della sorveglianza dinamica.

“Di questo suicidio abbiamo avuto notizia dai media. Fa riflettere che sia avvenuto durante un convegno sul carcere e su di noi, senza di noi. È la misura esatta di quello che vogliamo far capire. Non vogliamo essere un altro grado di giudizio su questa persona. Ci interessa segnalare la sua solitudine al momento del gesto, in solitudine maturato e lucidamente attuato, c’era indifferenza intorno alla sua disperazione che non ha trovato ascolto. Mani tese. Ci interessa sottolineare le responsabilità di coloro a cui era affidato la sua sicurezza così come la nostra. Sono sempre impegnati sul futuro, ma il dramma è oggi”.