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di Sabato Angieri

L’Espresso, 18 settembre 2022

Nel Paese ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana. Con due terzi dei deputati il partito del premier decide da solo.

“L’Ungheria, a mio avviso, si è spinta molto oltre, sull’orlo di una specie di abisso; e ora deve decidere se allontanarsi da questo baratro o correre un rischio e fare un salto, sulle cui conseguenze non voglio fare ipotesi». Si è espresso così il ministro per gli Affari Europei della Repubblica Ceca, Mikulas Bek, il 9 settembre scorso a proposito del veto di Budapest alle sanzioni europee alla Russia. Qualche giorno prima il governo ungherese aveva annunciato che si sarebbe opposto al nuovo pacchetto di misure punitive contro Mosca se gli altri Paesi Ue non avessero accettato di escludere tre oligarchi russi (Alisher Usmanov, Viktor Rashnikov e Petr Aven) dal provvedimento. L’Ue stavolta non si è piegata e poco dopo l’Ungheria ha ceduto rimandando l’opposizione alla prossima scadenza, prevista per marzo.

Non sempre, tuttavia, gli Stati europei si sono dimostrati altrettanto compatti rispetto agli aut aut del governo di Viktor Orbán; anche perché il leader ungherese negli anni si è costruito una solida reputazione tra tutti i partiti di destra e di estrema destra europei che aspirano a governare con il pugno di ferro e anche nel pieno della campagna elettorale italiana è frequente imbattersi in comparazioni con il modello ungherese.

Più che un Primo ministro oggi Orbán è il re dell’Ungheria e ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana del Paese.

Sul piano interno due sono gli strumenti principali che gli hanno permesso di mantenere il potere così a lungo: il controllo dei media e le riforme costituzionali. Il primo l’ha ottenuto grazie alla riforma del 2010 che consegnava al governo direttamente o indirettamente l’80 per cento dei canali di informazione, il secondo per mezzo della nuova legge elettorale del 2012 che sembra cucita addosso al suo partito, Fidesz, e che da 10 anni gli assicura più dei due terzi dei seggi nell’Assemblea Nazionale consentendogli di approvare riforme costituzionali senza bisogno di alleanze.

Sul fronte internazionale la solida alleanza con i costruttori di auto tedeschi, il gruppo Volkswagen in primis, assicura al Primo ministro magiaro un appoggio strategico fondamentale in seno allo stato leader dell’Ue nonché, secondo l’Istituto centrale di statistica ungherese, tra il 9,5 e il 13,5 per cento del Pil (dati 2019). È significativo notare che fin dall’insediamento di Orbán, i giornali tedeschi sono stati i suoi più attivi detrattori, con picchi durante la crisi migratoria del 2015 e nella primavera del 2021 contro la legge anti lgbtq.

D’altronde, sui media ungheresi gli attacchi della stampa estera sono (quasi) un motivo di vanto: le democrazie liberali sono in crisi d’identità e Orbán è fiero di essere a capo di una “democrazia illiberale» (così come egli stesso l’ha definita). La propaganda è massiccia e incessante e c’è sempre un nemico in agguato. All’inizio erano i socialisti, poi i migranti, la lobby lgbtq, i rom, l’Unione Europea. Senza contare l’anti semitismo strisciante della classe dirigente che imputa a George Soros tutte le teorie complottiste possibili.

Un’infaticabile macchina del fango che ha permesso al governo ungherese di approvare una serie di misure e di smantellare ciò che restava del welfare pubblico. Quando nel 2018 il governo approvò la cosiddetta “legge schiavitù”, che innalzava a 400 ore annuali il tetto di ore di straordinario legale, Orbàn dichiarò che finalmente chi voleva guadagnare di più aveva il diritto di farlo. In altri termini, chi restava povero sceglieva di esserlo. Nello stesso anno un emendamento costituzionale stabiliva che dormire all’aperto in luoghi pubblici era illegale e quindi che i senzatetto diventavano criminali.

Nel 2021 il parlamento di Budapest ha posto tutte le università e le istituzioni culturali sotto il controllo di fondazioni private istituite ad hoc e presiedute da sodali di Fidesz. In parallelo, si è smantellata la Ceu (l’Università del Centro Europa) voluta e finanziata da George Soros e al suo posto il governo ha firmato un accordo miliardario per la costruzione di una succursale dell’Università cinese di Fudan. Molti analisti vedono in quest’intesa solo la punta dell’iceberg delle nuove relazioni economiche e strategiche tra Ungheria e Cina.

Ultima in ordine temporale, la legge sulla cosiddetta “prevenzione della pedofilia” che accomuna la pedofilia all’omosessualità e vieta la propaganda di contenuti che diffondano un’idea diversa di famiglia rispetto a quella tradizionale. Dopo anni di minacce l’Ue ha aperto una “procedura di infrazione” che puntava a fare pressione con lo spauracchio del taglio dei finanziamenti. Orbán, per dimostrare all’Europa che gli ungheresi erano dalla sua parte, ha indetto un referendum in concomitanza con le elezioni dello scorso aprile. Ma alle urne la dissidenza si è manifestata con l’astensionismo e la consultazione è risultata nulla per il mancato raggiungimento del quorum. Tuttavia, contestualmente, su 199 seggi disponibili, Fidesz, ne ha conquistati ben 135, riuscendo a mantenersi oltre la fatidica soglia dei due terzi.

Senza contare le riforme volte a controllare i sindacati, a imbavagliare i media indipendenti in nome della “sicurezza nazionale”, a decurtare fondi dalla scuola pubblica per assegnarli agli istituti religiosi, a impiegare in massa poveri e rom nei lavori pubblici per pochi fiorini al mese e licenziare i dipendenti statali che ora sono disoccupati e credono che “gli zingari gli abbiano rubato il lavoro». E, ovviamente, i ripetuti tentativi di porre anche la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo, culminati, all’inizio del 2020, con l’istituzione di tribunali speciali, controllati dal ministero della Giustizia, chiamati ad esprimersi su varie questioni: dal diritto di assemblea alla stampa, dagli appalti pubblici alle elezioni. Ma la decisione più nota, quella che probabilmente identificherà per molti anni a venire il governo di Viktor Orbn, è la costruzione del famoso “muro” al confine con la Serbia.

Eppure, in un Paese di dieci milioni di abitanti dove i figli della borghesia liberale espatriano sempre prima e la popolazione invecchia, il discorso fa presa. E le critiche dell’Ue non fanno che rafforzare la retorica del giusto tra gli improbi, del difensore della cristianità dal pervertissement liberale delle lobby ricche. Intanto la situazione è tutt’altro che rosea e negli ultimi anni si è registrato un aumento considerevole del costo della vita.

A titolo di esempio si consideri che un insegnante a Budapest spende in media il 70% del suo salario per un affitto e un agente di polizia è spesso costretto ad avere un secondo lavoro come trasportatore o rider per sbarcare il lunario. E la colpa è sempre di qualcuno altro, in una guerra tra poveri che viene alimentata costantemente dalla ricerca di nemici esterni, come nel caso dei migranti alla frontiera serba, e interni, come i rom.

Nell’ottavo distretto di Budapest, a Dioszegi utca, le case delle famiglie rom sono catapecchie fatiscenti mangiate dall’umidità e dalla puzza malsana delle fogne mai riparate. Nel nord del Paese, a Ozd e a Salgotarjan (dove raggiungono 1/3 della popolazione cittadina) sono ai margini dell’abitato, separate da larghi viali da quelle degli “ungheresi” e spesso non servite dalla rete idrica ed elettrica. Nell’est, a Miskolc il governo locale ha attuato tra il 2014 e il 2015 una campagna di sfratti e demolizioni che ha devastato la zona delle “vie numerate” lasciando macerie e degrado e costringendo oltre 120 famiglie ad emigrare con compensazioni che andavano dai 6000 euro (per abbandonare la propria casa di proprietà) a zero. A pochi passi si è costruito uno stadio di calcio.

Non è un caso se in più occasioni i rom d’Ungheria sono stati etichettati come “migranti interni”. Difatti, il trattamento loro riservato è spesso simile a quello utilizzato contro i migranti che, intanto, continuano a tentare di attraversare la frontiera romena e da lì (data l’assenza del muro) di entrare in Ungheria per proseguire verso ovest. Salvo poi essere ricacciati indietro nella maggioranza dei casi e ritentare i giorni seguenti. Lo chiamano “il gioco”, con una macabra ironia che ben descrive la situazione.

Sul dramma di queste migliaia di persone l’Ue generalmente non si esprime, consapevole di ciò che avviene alle proprie frontiere e quindi, in una certa misura, connivente. Personaggi come Orbàn (che non è l’unico della sua specie, va sottolineato) in alcuni casi risultano utili ed è in queste faglie che prosperano. Poi passano gli anni e l’opposizione interna si ritrova a non avere più spazio nel dibattito pubblico e a ottenere il 34 per cento dei voti pur avendo tentato di candidare insieme quasi tutti, dai socialisti agli ultra-conservatori, mentre la televisione e i siti internet legati al governo continuano a parlare del rischio della sostituzione etnica, della propaganda della lobby lgbtq, del complotto giudaico-massonico e del fatto che la crisi energetica è colpa delle sanzioni occidentali e non della decisione di Putin di invadere l’Ucraina.