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di Elisabetta Zamparutti

Il Riformista, 4 febbraio 2023

Chiamato così in onore del leader sudafricano che ha trascorso in carcere 27 anni della propria vita, sancisce. Oltre i 15 giorni l’isolamento è da considerare una punizione disumana: in Italia c’è chi lo subisce ininterrottamente da 30 anni.

Nelle celle di isolamento del nostro “carcere duro” non vi è riconciliazione, non c’è riparazione. C’è solo separazione e punizione, cioè un carcere che nel suo significato etimologico vuol dire letteralmente coercere cioè reprimere, “carcar” cioè sotterrare, tumulare.

“Sembra sempre impossibile finché non lo hai fatto” disse Nelson Mandela che pensava e agiva verso livelli sempre più elevati di tutela della dignità umana. Parole potenti, perché potente è il vissuto di chi le ha pronunciate. Un uomo costretto in carcere per 27 anni, compreso quello duro, dell’isolamento totale. Nella forza dirompente che si genera da un pensiero orientato ai valori umani, quando sorretto da un agire con essi coerenti, come è stato quello di Mandela, accade che l’intera Assemblea generale delle Nazioni Unite, parliamo dell’organismo maggiormente rappresentativo la comunità internazionale, decida di chiamare Nelson Mandela Rules proprio gli standard minimi, rivisti nel 2015, per il trattamento dei detenuti.

Vi si trova per la prima volta una definizione di cosa si debba intendere per isolamento e quale sia il tempo oltre il quale ci si comporti in modo non umano. È isolamento, si legge alla regola 44, il confinamento per 22 ore o più al giorno in una cella senza significativi contatti umani. E si aggiunge che è da intendersi come isolamento prolungato quello superiore a quindici giorni consecutivi. Un trattamento questo che, insieme all’isolamento indefinito, la regola 43 considera una forma di tortura o un trattamento o punizione crudele, inumana e degradante. La regola 45 stabilisce poi che, in ogni caso, è proibito l’isolamento dei detenuti che abbiano disabilità mentali e fisiche quando le condizioni possano aggravarsi in ragione della misura applicata. Va poi abolito in ogni caso per i minorenni.

Se l’Italia “culla del diritto” si guarda allo specchio di questi standard internazionali, vede riflessa l’immagine di una “tomba del diritto”. Perché nel regime di isolamento al 41bis c’è chi vi è ristretto fin dalla sua introduzione avvenuta nel 1992. Parliamo di oltre 30 anni! Se è vero come è vero che “la durata è la forma delle cose” un sistema che dura così a lungo non è un sistema democratico e di emergenza, ma un vero e proprio Regime, totalitario e di prepotenza di cui è giunta l’ora di, finalmente, liberarsi come ci siamo liberati dal regime fascista che invece è durato “solo” un ventennio. Liberarsi di un trentennio di leggi di emergenza, tribunali speciali, regimi penitenziari inumani e degradanti, distruttivi a ben vedere non solo o non tanto della vita delle sue vittime ma della vita del diritto, dello Stato di Diritto.

Senza contare che in questi regimi di isolamento, da malato vi è pure morto come ha raccontato Carmelo Gallico dalle pagine di questo giornale con suo fratello Giuseppe Gallico, agonizzante e ormai incosciente, in quella tomba scavata nel cemento che è la stanza del reparto protetto penitenziario all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano dove la moglie ha potuto rubare alla morte un attimo di vita stringendo la mano del marito dopo oltre 30 anni della separazione imposta dal vetro divisorio che impedisce qualsiasi contatto fisico ai detenuti del 41 bis.

A questa forza mortifera di uno Stato che in nome delle ragioni di Abele diventa esso stesso Caino risponde una forza vitale. Quella che ha portato Nelson Mandela, nel carcere duro di totale isolamento in cui si trovava, a non perdere mai la speranza e ad incarnare la speranza del cambiamento. Mandela assurto dalla condizione di detenuto a quella di leader mondiale nonviolento la cui forza arriva fino a noi con le Regole delle Nazioni Unite che portano il suo nome e che hanno indotto all’aggiornamento, nel 2020, anche delle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Una forza costituita da un insieme di standard che vanno letti unitamente a quelli che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definisce sulla base delle visite che effettua nei Paesi membri. Un Comitato che, monitorando il nostro Paese fin dalla introduzione di questo regime speciale ha rivolto innumerevoli raccomandazioni, financo arrivando a pensare e scrivere che l’insieme di restrizioni che connotano il regime di detenzione “41-bis” più che volto ad interrompere i collegamenti con l’esterno sembra volto ad indurre alla cooperazione con la giustizia il che ne farebbe una pratica altamente discutibile sotto il profilo dell’articolo 27 della Costituzione italiana oltre che degli strumenti internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte. Un Comitato che ha ritenuto il ricorso all’isolamento nelle sue svariate forme, non solo il 41bis ma anche l’isolamento diurno, il 14bis, l’art 32 e via dicendo, talmente problematico da fare una visita ad hoc in Italia sull’isolamento.

Ora, le Regole di Mandela, le Regole penitenziarie europee, gli standard del CPT non sono giuridicamente vincolanti ma hanno la forza morale e politica propria degli organismi sovranazionali da cui promanano. Possono dunque influenzare e influenzano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Non ci sono obblighi, non ci sono diktat ma c’è una forza più sottile, quella della persuasione che deriva dalla autorevolezza di chi indica un percorso e dalla conoscenza della natura autentica di ciò di cui si parla.

Mandela allora non ha dato solo il nome a quelle regole che sulla base del suo vissuto di prigioniero hanno ispirato il diritto internazionale, diritto che di per sé è sinonimo di limite invalicabile, cioè il limite che lo Stato pone a se stesso quando deve fare i conti con il male assoluto, con il più acerrimo dei suoi nemici.

Nelson Mandela è stato insieme a Desomond Tutu il fautore di un’altra visione della giustizia. È successo nel suo Paese, il Sud Africa, quando nel 1995, alla fine dell’apartheid, per sanare le ferite del passato e guarire il dolore di vittime di violenze inaudite, i padri del nuovo Sud Africa non si sono affidati al solito tribunale ma hanno concepito una commissione detta “verità e riconciliazione”. La verità volta a non dimenticare le vittime: La riconciliazione per dare un futuro al Paese. Hanno lasciato spazio a una giustizia che non punisce e separa ma riconcilia e ripara. Hanno dato vita a uno stato non spietato, ma di grazia che quel Paese ha salvato, dandogli un futuro.