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di Paola Militano

Corriere della Calabria, 8 marzo 2022

Il pm della Dda di Reggio (e segretario di Md) Stefano Musolino: “Il 41 bis istituto necessario ma non è un totem intoccabile”. Le posizioni sul 41 bis di Carlo Redoldi, nominato dalla ministra Cartabia al vertice del Dap, hanno generato un acceso dibattito.

Per Musolino “le posizioni espresse da Renoldi” danno conto “della complessità del tema, insofferente a un approccio ideologico da guerra di religione, fondata su inestirpabili pregiudizi. Io credo che un approccio laico ai temi del regime speciale regolato dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario dovrebbe suggerire maggiore attenzione per la capacità dell’istituto di reggere alle valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di quella della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Un sistema normativo figlio di una logica di emergenza che il tempo sta usurando”.

Il magistrato spiega che il 41 bis “è necessario per contenere la capacità dei dirigenti mafiosi di continuare a gestire dal carcere le dinamiche criminali, ma la restrizione dei diritti individuali in funzione delle esigenze di sicurezza generale deve trovare un punto di compensazione più elevato di quello attuale”.

Per chi critica Redoldi, secondo Musolino, “la capacità dello Stato di contrastare adeguatamente il fenomeno mafioso si misura tutta sul mantenimento integrale del regime del 41 bis. Ma così facendo, se ne fa un mito intoccabile, tacendone le inefficienze e, soprattutto, trascurando i temi dell’antimafia sociale, quella che ambisce ad incidere sui fattori genetici del fenomeno che risiedono nella oggettiva povertà economica e culturale di alcune zone del Paese. Sostenere il totem del 41 bis fa comodo a tanti perché così non si affrontano le vere criticità sottese al fenomeno mafioso”.

“Il 41 bis è necessario. Ma anche al detenuto mafioso va data la possibilità di rieducarsi” - Il tema è sensibile, e il pm argomenta: “Lo ribadisco: l’istituto è necessario, perché l’esperienza, anche quella dei detenuti mafiosi in regime di alta sicurezza, dimostra come costoro abbiano un atteggiamento refrattario alle proposte rieducative e tendano a ripetere anche all’interno delle strutture detentive quelle che sono le modalità relazionali e i metodi che caratterizzano l’organizzazione”. C’è bisogno, però, di “consentire valutazioni individualizzate dei singoli percorsi detentivi che non siano viziate da pregiudizi irresistibili, ma siano capaci di garantire anche al detenuto mafioso la possibilità di emendarsi e usare il tempo trascorso in carcere quale momento di rieducazione ed emancipazione dall’organizzazione e dai suoi metodi”.

“Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico” - “Io credo - spiega ancora Musolino - che la necessità di una detenzione ispirata al massimo rispetto delle dignità umana sia ineludibile e sia imposta dalla Costituzione e dalla normativa internazionale. Sulla base di questa ispirazione di fondo, credo sia giunto il tempo di rivalutare con attenzione un istituto indispensabile nel contrasto alle mafie, riformandone i profili puramente afflittivi ed accentuando la rilevanza di una valutazione individualizzata di ciascun detenuto. Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico: è un fenomeno ormai cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione in grado di tenere insieme le ragioni della sicurezza sociale con quelle dei diritti dei soggetti coinvolti nei processi”.

“La politica delega tutto al mito della repressione” - In generale, il magistrato ritiene pericoloso trasformare temi in “guerre di religione”: “rifiutare il confronto e descrivere come un traditore dell’antimafia chi muove da altre valutazioni credo sia profondamente sbagliato. Costruire su questa materia totem pregiudiziali non aiuta l’antimafia, aiuta piuttosto quelli che sull’antimafia fanno carriera e gran parte della politica”.

Che “sembra non volersi assumere le responsabilità che deriverebbero da una antimafia sociale, sicché preferisce delegare tutto al mito della repressione e a quello della mafia, che si coltivano vicendevolmente. Se pensiamo che da trent’anni il modo di approcciare alla mafia è solo quello della repressione, chi pensa che questo sia ancora il solo metodo per fronteggiarla dovrebbe chiedersi perché questa ricetta non ha funzionato. Questo non vuol dire sottovalutare la natura del fenomeno mafioso, ma sottolineare che una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata”.