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di Tiziana Maiolo

Il Riformista, 1 luglio 2022

Il Giudice ha parlato. Chi ha rifiutato l’estradizione di nove condannati italiani per fatti di terrorismo e di Giorgio Pietrostefani, accusato di aver organizzato l’omicidio del commissario Calabresi, cioè la Chambre de l’Instruction della Corte d’appello di Parigi, è un Giudice. Cioè un organo autonomo, indipendente e imparziale. Le cui sentenze andrebbero rispettate anche quando non condivise, come ci spiegano ogni giorno, non sempre a proposito, magistrati, giornalisti, e partiti politici. Invece, a quanto pare, l’unico a ricordarsene è il Presidente Macron da cui dipendono, secondo l’Ordinamento francese, i Pubblici Ministeri, ma non, ovviamente, i giudici. La sua dichiarazione, quasi “estorta” dai cronisti nel corso della conferenza stampa al vertice Nato, è quanto di più diplomatico potesse essere, visto il contesto e anche la sentenza, un po’ a sorpresa, della Corte d’Appello di Parigi.

“Non è mia norma - ha detto il Presidente - giudicare le decisioni della giustizia, ma posso dire che appoggio politicamente l’Italia nella sua domanda di estradizione”. Non poteva parlare diversamente, dopo aver stipulato un accordo con il premier italiano Draghi tramite un patto di ferro tra la guardasigilli Cartabia e il ministro Dupond-Moretti che impegnava i due Stati in una comune battaglia politica perché si superasse quella “dottrina Mitterand” che, fin dai tempi del leader socialista, aveva garantito la Francia come Paese dell’ospitalità e dell’asilo per chi è accusato di reati politici, anche gravi, purché prenda le distanze dal terrorismo e conduca una vita “regolare” nella terra che lo ospita.

Regola cui i dieci italiani giudicati due giorni fa si sono sempre attenuti. Così come gli altri duecento che l’Italia avrebbe voluto fossero estradati, prima che i due Paesi arrivassero alla mediazione su un gruppo molto più ristretto ma significativo, soprattutto per la gravità dei reati. Macron con il suo “valuteremo”, non si è sbilanciato più di tanto sulle intenzioni del governo rispetto alla possibilità di un ricorso in cassazione tramite il Procuratore generale.

È una decisione politica, che rischia però, qualora fosse adottata, di andare a sbattere di nuovo contro un’altra decisione dei giudici, quelli della cassazione, che potrebbero essere più rigorosi ancora di quelli dell’appello. Perché occorre essere chiari. In Italia, in un improvviso rigurgito di nazionalismo patriottico, tutti i partiti di destra e sinistra o centro, insieme a tutta la stampa e l’opinione pubblica, si sono scagliati contro la “dottrina Mitterand” che impedirebbe all’Italia di giudicare e punire i propri assassini.

Ma qui stiamo parlando della sentenza di un tribunale, non di un accordo tra Stati. E bisogna avere il coraggio, e anche il pudore, nell’attesa di motivazioni più articolate, di leggere attentamente quei due articoli, il 6 e l’8, della Convenzione dei diritti dell’uomo, sottoscritta anche dall’Italia, su cui si è fondato da parte dei giudici il rifiuto di estradare Pietrostefani e gli altri nove. Non stiamo parlando di bagatelle. L’articolo 6 dice che “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”.

Seguono poi una serie di precisazioni sui diritti dell’imputato, che ne presumono la presenza e la possibilità concreta di difendersi con una forza che sia il più possibile simile a quella dello Stato che lo accusa. È il principio dell’habeas corpus, che contrasta in modo tangibile con la condizione di contumacia, cioè di assenza, in cui è stata giudicata in passato in Italia la maggior parte dei condannati su cui ha deciso la corte d’appello di Parigi. Ma potrebbe non essere questo l’unico motivo che ha determinato i giudici a rifiutare le estradizioni: non dimentichiamo il clima di emergenza in cui si sono celebrati i processi sui fatti degli anni 70 e 80, con l’uso smodato dei reati associativi, dei concorsi morali e della parola dei “pentiti”.

Se a tutto ciò si aggiunge la citazione, nella sentenza, dell’articolo 8 della Convenzione europea, che invoca il “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, si capisce quanto sia stretta la via per l’Italia per ottenere le estradizioni. Del resto, che giustizia sarebbe mettere in galera un gruppetto di anziani, dopo trenta-quaranta anni dai fatti, se pur tragici? Persone che da tempo non hanno nessuna somiglianza con gli sciagurati ragazzi che furono? Sarebbe soddisfazione, per lo Stato italiano e i parenti delle vittime, o sarebbe solo una misera e povera piccola vendetta?