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di Aurora Matteucci*

Il Dubbio, 28 novembre 2023

E se l’avvocato di Filippo Turetta fosse stato una donna? Il femminicidio di Giulia Cecchettin ci indigna, ci interroga, ci rende consapevoli che la violenza maschile contro le donne è un edema dilagante che non conosce, ancora, una cura e una posa, nonostante le solite reazioni muscolari del panpenalismo più estremo. Ed è “solo” il penultimo. Qualche giorno dopo è toccato a Rita Talamelli, strangolata a Fano dal marito che poi ha provato, invano, a suicidarsi. Siamo a 107. 107 donne uccise per mano di uomini, da inizio d’anno. La reazione, di pancia, di piazza, di rabbia affidata oggi anche ai bei versi di Cristina Torres- Cáceres - “se domani tocca a me voglio essere l’ultima” - racconta molto. Racconta di donne che hanno voluto fare rumore, non più minuti di silenzio, scarpe rosse, giornate nazionali per celebrare vittime.

Di donne che non vogliono essere vittime, né essere identificate come vittime, urlando con forza contro un mainstream in salsa giustizialista che ha da sempre inteso il problema della violenza di genere come un’occasione per aumentare le pene relegando le donne entro gli angusti confini di una categoria da proteggere, dimenticandosi di promuoverne empowerment, parità salariale, diritti a tutto tondo, dimenticandosi del prima e intervenendo solo dopo e male, quando è tardi, quando le donne muoiono. Ma racconta anche di chi, tra gli uomini, ha iniziato a farsi domande, di chi comincia finalmente a pensare che la violenza maschile sia un problema degli uomini, persino dei “bravi ragazzi che “chi lo avrebbe mai detto?”“.

Per la prima volta dopo tanto tempo abbiamo cominciato a sentire, nei vari talk show, che aumentare le pene non serve. Non è il caso di farsi troppe illusioni, però: la strada dei social è ancora ben lastricata di invettive contro il mostro, di dardi scagliati contro il lassismo del nostro ordinamento, contro il processo, contro lo stucchevole garantismo: “non ha diritto a un avvocato” - si legge spesso - con variazioni sul tema “che resti in Germania, almeno lì avrebbe una pena esemplare” (chissà poi con quale profonda conoscenza del sistema tedesco si sia finiti a immaginare sedie elettriche prussiane è un mistero); “in Italia prenderebbe 20 anni che, calcolatrici alla mano, diventerebbero 10 per poi, chissà come, azzerarsi “tanto, qui da noi, in galera non ci finisce mai nessuno”“ (nel paese del sovraffollamento carcerario c’è ancora chi, la maggior parte, lo pensa).

Il difensore di Turetta è un uomo. Ma è facile immaginare cosa verrebbe detto e scritto se fosse, invece, una donna. Il livello dell’indignazione si eleverebbe a dismisura perché è ancora più inaccettabile che sia una donna a difendere un mostro, che sia una donna, da giudice, ad assolvere un mostro. Ad una donna non si concede la possibilità di avere a cuore il rispetto per le garanzie: in definitiva, ancora una volta, le si deve dire come stare al mondo. Difendere un uomo accusato di violenza, difendere una persona accusata di qualsiasi reato (uomo o donna che sia) corrisponde, neanche a dirlo, a farsi interprete e strumento di uno dei capisaldi del nostro sistema democratico.

Ed invece - nel paese che ormai processa ogni fenomeno sociale come una gara tra opposte tifoserie- assumere la difesa di un uomo accusato di violenza diventa un’onta indelebile e, se sei donna, automaticamente quel marchio di infamia resta inciso come un tatuaggio. Basti pensare che l’intesa raggiunta il 14 settembre 2022 in sede di Conferenza unificata tra Governo, Regioni ed Enti locali relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case Rifugio prevede, come requisiti per le “operatrici”, testuali parole, che “non possono operare nella Casa le avvocate e le psicologhe che, nella loro libera attività professionale, svolgono ruoli a difesa degli uomini accusati e/ o condannati per violenza e/ o maltrattamenti”. Credo non servano commenti per definire la gravità di questa posizione, ma solo ribadire, per l’ennesima volta, l’ovvio. E cioè che garantire a Filippo Turetta e agli uomini accusati di violenza contro le donne il diritto di difesa, il diritto di affrontare un processo giusto, il diritto ad una sentenza giusta, non significa strizzare l’occhio al patriarcato o non rendere giustizia alle molte Giulia Cecchettin. Non significa trovare il commodus discessus di una “giustificazione” che levighi o riduca la sua responsabilità. Significa analizzare, ricostruire, ricomporre una storia con gli strumenti del diritto e non della vendetta. Significa pretendere che lo Stato, oggi pressoché incapace di affrontare la tragedia della violenza maschile contro le donne in chiave preventiva, si assuma la responsabilità di non fallire di nuovo.

Cosa che accadrebbe se si accettasse di mettere in piedi un processo farsa che dovesse anche solo lontanamente assecondare il desiderio di restituire, occhio per occhio, il male procurato. Un processo già pesantemente trasfigurato da una legislazione (l’ultima persino ricorrendo al codice antimafia) che, anche sul terreno della violenza maschile contro le donne, ha adulato solo inutili reazioni repressive a suon di clausole di invarianza finanziaria (tradotto: punire di più, limare fino all’osso le garanzie processuali non costa un euro). Ed ancora una volta, alla domanda “vogliamo donne vive o uomini in carcere?”, si risponde barrando la seconda crocetta.

*Presidente Camera Penale di Livorno