di Barbara Stefanelli
Corriere della Sera, 17 febbraio 2023
Non è tutto così indistinto e lontano: ci sono cose che possiamo fare anche se non siamo volontari o missionari. Due terremoti insieme, otto scosse devastanti. Migliaia di morti, forse saranno ventimila alla fine. Ventitré milioni di persone coinvolte, mani che hanno scavato nude per seguire fino all’ultima traccia di vita. Un’energia totale liberata dal sisma pari a 660 atomiche. Famiglie disperse nel vuoto, senza casa, senza niente se non il pieno di rabbia per l’ingiustizia che si è accumulata nel tempo strato su strato. È l’unico muro che non è caduto, che non cade. Il fiume di numeri che dall’Anatolia e dal Nord della Siria è arrivato straripando verso di noi, per giorni, ci ha consegnati a quello stato di sbigottimento da remoto che rischia di smorzarsi presto nel torpore.
All’inizio leggiamo tutto. Ci sconvolgono i racconti dall’unico valico aperto tra Turchia e Siria dove, nelle prime ore, venivano fatti passare soltanto i corpi nei sacchi neri, con i nomi tracciati con la biro su fogli di quaderno: i corpi di uomini e donne siriani che, in fuga dalla guerra, negli anni si erano rifugiati dall’altra parte cercando sistemazioni “di fortuna”. Ora tornano in patria per essere sepolti. I parenti li aspettano al gelo, sotto un’assurda e impietosa pioggia mista a neve, a Bab al-Hawa: “Li riportiamo a casa”. I corpi più piccoli, chiusi nelle coperte, sono quelli dei ragazzini che forse non avevano neppure più ricordi della terra che ne custodiva le origini. Per questo ci emoziona la storia di quell’incredibile neonato, con una zazzera nerissima di capelli, strappato alle pietre mentre è ancora collegato alla madre dal cordone ombelicale.
Gli algoritmi che mettono in classifica gli articoli più cliccati rivelano come progressivamente si comincino a scartare gli aggiornamenti. Ci fermiamo sui titoli che spiegano dove arriva la faglia, se c’è un reale pericolo di Big Bang verso Istanbul e nel Mediterraneo. Prende forma quell’altra frattura. Quella che divide “noi” da “loro”, loro che ci sembrano subito diversi, forse un po’ più mortali, un po’ meno individui. Ha detto la scrittrice turca Elif Shafak, in un’intervista a Monica Ricci Sargentini sul Corriere, dopo aver denunciato la corruzione, l’avidità, le derive nazionaliste ed autoritarie del governo di Erdogan: “Credo nella solidarietà globale, nella sorellanza globale, in un cambiamento che porti ogni essere umano a essere trattato con dignità, allo stesso modo”. Ma gli sfollati, innocenti e dannati, sopravvissuti al sisma e magari prima ai bombardamenti, tutti raggruppati nell’insieme degli “altri”, si spostano già nei nostri pensieri, si allontanano dalla possibilità di un aiuto concreto. Quali diritti saremo pronti a riconoscere alla loro disperazione, al loro status di più sfortunati?
L’universalismo sta sempre lì, sul baratro della generica empatia. L’avversione, invece, sa essere specifica. E l’intolleranza precisa. Nelle stesse ore Zein al Assad, figlia 19enne del dittatore di Damasco, metteva in guardia via social i suoi amici: non mandate aiuti seguendo questo link perché porta a Idlib (area controllata dai ribelli; ndr), puntate verso Aleppo, Latakia, Hama (città controllate dal padre; ndr). Non è tutto così indistinto, indecifrabile, lontano. La complessità delle tragedie che si sommano alle ingiustizie - quei due minuti di terra che trema sotto le macerie di una guerra lunga 12 anni - non giustifica l’equidistanza. Sappiamo che cosa possiamo fare, quel poco che sappiamo fare rispetto ai volontari e ai missionari che ogni volta si spingono oltre le crepe. Essere informati ed essere capaci di ascoltare; scegliere di restare aperti e accoglienti, cercando le soluzioni migliori che poi sono quelle possibili: questo ci salverà dalla tentazione di scivolare nel dormiveglia davanti agli “altri”.