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La Stampa, 5 febbraio 2023

La lettera dei carcerati di San Vittore: “Qui dentro si rischia di perdere la dignità. I nostri diritti sembrano solo retorica, ma ci aiutano a capire davvero gli errori”.

I detenuti di “Costituzione Viva” - Con questo articolo, inizia una collaborazione tra La Stampa e “Costituzione Viva”, un gruppo di detenuti del carcere milanese di San Vittore, uno dei più grandi d’Italia. La loro voce sarà una testimonianza della vita “dentro” e del lavoro portato avanti in questi anni sulla legalità e la Costituzione, dopo l’incontro con la Corte costituzionale. Ascolteremo i disagi e le aspettative di chi ha commesso reati, anche gravi, che sa di aver sbagliato e di dover saldare i conti con la giustizia, ma che non si rassegna all’idea di essere considerato uno scarto della società. Daremo voce a chi, attraverso un percorso di revisione critica, l’impegno e il confronto con il mondo “fuori”, spera di poter tornare, in quella società, come cittadino. Lo facciamo perché, proprio nel momento in cui riesplodono le polemiche sul carcere, sul 41 bis, sull’ergastolo ostativo, e torna a soffiare il vento oscurantista di chi vuole “chiudere le gabbie e buttare via le chiavi”, noi crediamo che la forza dello Stato non si misuri sulla sua voglia di vendetta, ma sulla sua capacità di garantire i diritti fondamentali di tutti, anche degli ultimi. Lo facciamo perché siamo ancorati ai valori della Costituzione, che all’articolo 27 sancisce il principio della funzione rieducativa della pena. Lo facciamo perché siamo convinti che un carcere è giusto se rispetta la dignità delle persone e offre concrete occasioni di cambiamento. Lo facciamo perché abbiamo fiducia nell’umanità. E perché questa per noi si chiama civiltà.

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Caro Direttore, siamo un gruppo di detenute e detenuti del carcere milanese di San Vittore, che lavora sulla Costituzione nell’ambito di un progetto chiamato “Costituzione Viva”, nato cinque anni fa dopo l’incontro in carcere con la Corte costituzionale. Qui a San Vittore il “viaggio” della Corte nelle carceri è passato tre volte e ci ha aiutato a costruire un linguaggio comune. Le chiediamo ospitalità per raccontare da “dentro”, per la prima volta, quel viaggio di cui tanto si è parlato anche sui media, sia per spiegare il senso che ha avuto per noi sia per dare un contributo alla conoscenza del carcere sia, infine, per testimoniare il nostro impegno a partecipare al dibattito civile.

Per molti di noi è stata una prima volta... No, non sapevamo proprio che esistesse un giudice capace, addirittura, di cancellare le leggi. Neppure sapevamo molto dei diritti e della dignità garantiti dalla Costituzione a tutte le persone, comprese quelle come noi, chiuse in carcere. Ne avevamo un’idea vaga, come di parole belle ma lontane, che suonavano piuttosto vuote in questi corridoi. Di una dignità che si perde subito, a partire dal denudamento iniziale, quando entri in carcere. Di principi facili da aggirare e calpestare, quando rispettarli sarebbe scomodo. Di una retorica alla quale si può restare indifferenti. Il Viaggio della Corte costituzionale nelle carceri ha cambiato tutto questo.

Abbiamo lavorato e discusso a lungo - con l’aiuto soprattutto dei volontari - per mettere a fuoco, a partire dal “basso”, cioè dalla concretezza dell’esperienza che ciascuno fa nella quotidianità della sua vita, alcune domande “alte”, generali, capaci di andare al di là delle nostre storie personali. Pensando a come e cosa chiedere, abbiamo sentito crescere la responsabilità: in un certo senso, avremmo parlato a nome di molte persone nelle nostre stesse condizioni, che non hanno avuto l’occasione di essere ascoltate. Questo lavoro ha impegnato uomini e donne di varie età, religioni e nazionalità. Spesso diventava difficile mettere da parte la rabbia, il malessere, la frustrazione per i tanti problemi. A tratti si faceva fatica a parlare in modo costruttivo. Non sono mancati dibattiti accesi, pieni di fervore.

È importante sottolinearlo subito: in ciascun incontro, i giudici hanno risposto alle nostre domande. I temi sono stati tanti: la recidiva, le misure di sicurezza, il sovraffollamento, la tutela della salute anche mentale, le dipendenze, i rapporti con la famiglia e i figli, il lavoro, quello che ci attende all’uscita da qui. I giudici hanno dato risposte precise e comprensibili, anche se si trattava di questioni complicate. Non sono venuti a fare prediche o, come qualcuno ha detto, a fare catechismo: sarebbe stata un’immagine avvilente, infantilizzante, per tutti, come se i detenuti potessero fare solo “domandine” (così viene chiamato, nel gergo carcerario, il modulo per chiedere di partecipare ad attività, incontrare persone ecc...) e i giudici dovessero dispensare pensierini buoni. Non si è trattato di risposte accomodanti o preconfezionate, di contentini calati dall’alto; ma di ragionamenti lucidi e impegnativi, fatti con rispetto, senza trattarci come bambini o mostri. Insomma, c’è stato un lavoro da entrambe le parti e, al momento del confronto, una certa dose di empatia. Come avrebbe potuto essere diversamente, parlando di situazioni disumane come quelle degli anziani o dei malati psichiatrici in carcere o dei suicidi? Questo ha facilitato la comunicazione. Un conto è parlare, anche con i giudici, sulla carta. Un altro, è farlo direttamente, con il tono della voce che sale o scende secondo i momenti, le pause, i silenzi.

Negli incontri preparatori, e poi con i giudici, il tempo a disposizione sembrava sempre finire troppo presto. Che questo accada in carcere, credeteci, è un lusso! Dal nostro punto di vista, il “viaggio” ha avuto diversi significati. È stata anzitutto un’occasione per imparare, e per riflettere su alcune cose. Ad esempio, che i diritti sono proprio diritti, non privilegi né concessioni dall’alto o forme di benevolenza che, secondo i casi, possono valere oppure no. Che nella Costituzione i diritti si accompagnano ai doveri. Che è difficile tenere tutto assieme: non avevamo mai sentito parlare di “bilanciamento”, ma abbiamo iniziato a capire quanto è difficile e importante. Parlare di diritti è anche un modo per ragionare sulla responsabilità, la nostra: abbiamo cominciato a parlare di diritti partendo dai nostri ma il passo successivo è stato capire il collegamento con quelli degli altri e riconoscerli. Quando si ignora tutto questo, è più facile la strada verso la violazione della legge.

Inoltre, la riflessione su come si responsabilizza una persona, su come la si rende attiva e partecipe di conoscenze e decisioni, serve anche a capire meglio la pena, la sua misura e quantificazione, ciò che la rende giusta e proporzionata, soprattutto ciò a cui dovrebbe servire. Uno fra noi - forse con un po’ di utopia - ha osservato che sarebbe importante, al momento di decidere la pena, che si desse al condannato la possibilità di dire qualcosa sul tipo e sulla quantità della pena che merita, appunto per renderlo corresponsabile. A un altro di noi, un vecchio detenuto, è tornato in mente un processo in cui era stato condannato con altri sette imputati. Alla fine dell’udienza il giudice, dopo avere letto la sentenza, si è rivolto a ciascuno dei condannati spiegando perché aveva inflitto proprio quelle pene e perché, caso per caso, le pene erano differenti. Nessuno dei condannati - tutti recidivi - si era mai trovato in una situazione simile. Allora, nessuno si permise di parlare di condanne ingiuste. Al di là dei tanti anni di carcere, il nostro compagno si sentì rispettato come persona. La pena spiegata è una pena di cui si capiscono più facilmente ragioni e finalità.

Ancora, abbiamo capito perfettamente, come ha detto il presidente Amato, che la Costituzione contiene formule in technicolor, mentre la realtà della legge e soprattutto della sua applicazione è ancora in bianco e nero. Ma abbiamo anche capito che la Costituzione continua a segnare la direzione in cui ci si deve muovere, che le aspettative frustrate non devono diventare alibi e facili giustificazioni. Questo rimane vero anche se la strada sembra ancora lunga e difficile. E vale sia per noi, sia per la società. Noi con le nostre responsabilità cominciamo a fare seriamente i conti, ma ci ha colpito molto leggere in una sentenza della Corte (n. 149 del 2018) della “correlativa responsabilità della società” nello stimolare il condannato alla revisione del proprio passato, per favorire il progressivo reinserimento nella società. Su questo cammino si incontrano ostacoli insormontabili: la recidiva è un fallimento per tutti. Certe volte si ha la sensazione che sia più comodo considerarla una sorta di malattia incurabile.

Tante volte, dopo i vari incontri, siamo tornati in cella indignati, sconfortati, afflitti. Ma abbiamo cercato anche di essere obiettivi. Imparare a convivere con questa rabbia, con i sentimenti di impotenza, con la consapevolezza che di questo stato di cose siamo responsabili anche noi: anche questo ha fatto parte del “viaggio”.

Infine, bisogna ricordare che il carcere è un muro che ci separa dal mondo esterno e che tutto ciò che contribuisce ad attenuare questa separazione è positivo. Vale anche nel rapporto con i giudici: quelli di sorveglianza che applicano la legge penitenziaria; quelli costituzionali che - abbiamo appreso - giudicano quella stessa legge e, in questo modo, influiscono sulla sua applicazione. Con le loro visite, i giudici hanno contribuito ad abbassare quel muro, parlando con noi, guardandoci in faccia e scegliendo le parole e i gesti per una comunicazione diretta. Questo ci ha fatto sentire degni di ascolto, anzi di più: titolari del diritto a essere ascoltati, di scambiare idee, proposte, critiche e dissensi; meritevoli dell’attenzione che spetta a ogni persona e che non si dovrebbe perdere insieme alla libertà personale, per il fatto di essere in carcere. Insomma, il faccia a faccia con un’istituzione ci ha fatto sentire cittadini di una democrazia, in cui ognuno ha la propria dignità sociale, che sia malato, prigioniero o migrante.