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di Donatella Di Cesare

La Stampa, 6 marzo 2022

Se oggi fosse vivo Immanuel Kant farebbe fatica a riconoscere la sua Europa. E stenterebbe a credere che ci sia chi, persino tra leader politici e capi di governo, indica nella pace un’illusione passata di moda e vede nella guerra l’unico mezzo per fermare la guerra. Altre armi per fermare le armi. Esattamente l’opposto di quello che lui scrive nel suo grande saggio del 1795 Sulla pace perpetua, quasi un atto di nascita dell’Unione europea. Non si può continuare a ritenere la guerra un rimedio ineluttabile, un farmaco più o meno amaro; perché in questa logica il rischio è che si vada delineando la “pace dei morti”, il grande cimitero europeo. Ecco l’incubo di Kant che noi tutti viviamo, in questi giorni cupi e angosciosi. Interrompere la spirale per cui si cerca la pace preparando la guerra - questa è la sua indicazione. E vale per la politica, per l’etica, per la convivenza civile.

Qualcuno mi ha incolpato, con una certa sarcastica veemenza, di aver sostenuto che la pace è condizione della libertà. Come se si trattasse di un’idea oscena, non articolabile nella scena pubblica, tanto più di fronte agli ucraini che combattono. Sennonché quello è un pensiero di Kant, che io mi limito a rilanciare, convinta che non si aiutino i bambini, le donne, gli anziani, mandando altre armi più o meno letali e aumentando l’escalation di guerra. Dov’è finita la politica, che avalla la guerra per procura? E perché tace? Dov’è l’Unione europea, che avrebbe dovuto essere protagonista dei negoziati? La scelta della pace oggi è più difficile di sempre. Non solo perché si rischia di essere additati al pubblico ludibrio, ma anche perché risuonano, più aggressive che mai, le accuse di colpevole ignavia, cialtronesca equidistanza. Nel peggiore dei casi sei un Putinversteher, un putinista, nel migliore sei un detestabile buonista, un inservibile intellettualista che non accetta la guerra come destino. D’altronde, si sa, la guerra è la realtà nella sua durezza, è la dura realtà che prevale sulla parola, la manda in pezzi, la frantuma. Anche lontano dal fronte immediato diventa difficile parlare in un dibattito ormai militarizzato.

Non vedi forse quelle immagini? Ma come fai a non essere dalla parte degli ucraini? Perché non prendi la loro bandiera? Perché sono allergica ai drappi nazionali, dietro cui fanno capolino gli oscuri nazionalismi europei. E soprattutto perché penso che siano i popoli le vittime delle guerre che, come quelle del Novecento, se viste in retrospettiva fanno inorridire. L’etimologia della parola “guerra” significa confusione. Il termine è indicato per situazioni di scompiglio, subbuglio, frastuono, divenuti esperienze quotidiana. Per non farsi coinvolgere in questa belligeranza occorre fare un passo indietro, che non è quello dell’ignavia, bensì del pensiero e della riflessione. Dal pozzo vertiginoso del Novecento, che sembrava per sempre sigillato, è riemersa la barbarie, sia quella di chi produce la guerra, sia quella di chi la ammette come mezzo ineluttabile riavviando la spirale di violenza.

Per quanto mi riguarda non smetterò di credere, anche in queste ore terribili, che sia possibile un varco, che sia anzi necessario guardare oltre la guerra costruendo immediatamente uno scenario di pace. Negoziati, intermediari, diplomazia - non possiamo accettare la sconfitta della parola. Perché vorrebbe dire accreditare la fine della politica. Ormai i sondaggi cominciano a dire con chiarezza che in Italia una larga maggioranza di persone è contraria all’invio di armi. Forse anche per questo si acuiscono i toni sprezzanti di una certa propaganda bellica che, a quanto pare, non ha poi così presa. Questa volta non ci arrenderemo all’idea di un’Europa in macerie.