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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 7 ottobre 2023

La vecchia Magistratura Democratica, quando era l’unica corrente di sinistra delle toghe, l’ha sempre teorizzato, che i giudici dovessero immergersi anima e corpo nella società per proteggere i deboli dalla forza del Potere, scritto sempre con la P maiuscola. Erano gli anni dei “pretori d’assalto” e dei processi collettivi. E furono anche gli anni in cui gran parte della sinistra comunista abdicò alla “lotta di classe” per trasferirsi armi e bagagli nelle aule di tribunale, a delegare ai compagni magistrati il compito della presa della Bastiglia. Una certa forma di lotta politica entrò allora, erano gli anni settanta del novecento, nei palazzi di giustizia. E non ne uscì più. Generazioni di magistrati si formarono su quella storia. Nacquero ed entrarono nei palazzi di giustizia discendenti di quei pretori, già politicizzati. E convinti di essere portatori di un diritto in più, quello di scrivere la storia.

Con questo nobile retroterra alle spalle, non stupisce quindi che una nuova corrente sindacale di sinistra dei magistrati, che si chiama “Area”, abbia svolto un congresso mettendo a sedere in prima fila come interlocutori privilegiati Elly Schlein e Giuseppe Conte. E poi, senza che i due prestigiosi interlocutori politici abbiano battuto ciglio di fronte a un palese tentativo di tracimare oltre il principio della divisione dei poteri dello Stato, abbiano lanciato un appello a “resistere alla restaurazione, uscendo dalle aule dei tribunali”. Davide Varì, sul Dubbio del 4 ottobre scorso, ha già posto domande di non poco conto, chiedendosi se sia compito dei magistrati lasciare le proprie case, cioè i tribunali, per andare a prender parte del pubblico dibattito. E anche se sia legittimo, da parte di un soggetto che non può essere politico anche perché non viene eletto, cercare il consenso dei cittadini al proprio operato. Magari mettendosi ance in posizione critica dei confronti di chi è legittimamente al governo.

Ma quel che colpisce maggiormente, è l’uso di quel verbo, “resistere”. Che ci ricorda altri personaggi e altri comportamenti. Non è una forma di resistenza, per esempio, da parte di un magistrato, partecipare a una manifestazione pubblica di protesta contro provvedimenti del governo (ma anche del Parlamento), come per esempio quelli sull’immigrazione, soprattutto se qualche frangia estremista urla slogan violenti contro la polizia? Nulla di personale nei confronti della giudice di Catania che ha emesso la sua discussa sentenza su tre casi di immigrazione. Però credo che nessuno di noi, di destra o di sinistra, vorrebbe essere giudicato da un magistrato che si è dimostrato, nella sua vita pubblica, essere così di parte. E’ quel che è successo a Augusto Minzolini, che si è ritrovato a essere indagato o giudicato da un magistrato che nella vita precedente era stato suo oppositore politico in Parlamento. Porte girevoli, ma non solo. Urgenza di separare le carriere, ma non solo. Speranza in un futuro riformatore in cui il pubblico ministero debba render contro a qualcuno del proprio operato e non essere un soggetto che può muoversi come una variabile impazzita che agisce con le regole della roulette russa. Ma non solo.

Il verbo “resistere” è inquietante, se pronunciato da una toga. Perché la colloca immediatamente in un altrove dove albergano le opposizioni politiche. Cioè coloro che hanno perso le elezioni, ma che comunque si sono sottoposti, legalmente e pubblicamente, al giudizio dei cittadini. I magistrati non vincono le elezioni, vincono un concorso. Se lo superano vuol dire che hanno studiato, che conoscono regole, leggi e codici. Il che per noi cittadini è confortante. Ma da loro ci aspettiamo giustizia, e soprattutto terzietà. Non resistenza. Non parliamo di quella sui monti con il fucile in mano, per lottare contro una dittatura. Ma neanche di quella contro la legalità di un risultato elettorale.

La giudice Iolanda Apostolico da un lato, e dall’altro i suoi colleghi di Area, sul piano della “resistenza” hanno un illustre predecessore, il procuratore di Milano dei tempi di Mani Pulite, Saverio Borrelli. Il suo nome è ricomparso sui giornali proprio ieri, in occasione della decisione del Comune di Milano di ospitare al Famedio, il Pantheon di coloro che fecero grande Milano, Silvio Berlusconi. La figlia del magistrato scomparso ha lamentato la contiguità delle spoglie dei due personaggi compianti. Per chi non dimentica quel “resistere, resistere, resistere” pronunciato a un’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano da quel procuratore nei confronti proprio del governo Berlusconi, la lamentazione della figlia appare quanto mai incongrua. Se fosse nel loro stile, e non lo è, non stupirebbe la protesta da parte dei figli di Berlusconi per quella convivenza. Perché quel giorno il procuratore di Milano aveva veramente oltrepassato ogni limite del principio della divisione dei poteri. Ma ancora maggior danno aveva fatto, alcuni anni dopo, quando aveva esplicitamente detto che se avesse saputo quel che sarebbe accaduto dopo la fine della prima repubblica, cioè la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 1994, forse non sarebbe valsa di pena di tutto quel che era stato fatto sul piano giudiziario. La conferma dello scopo politico delle inchieste su Tangentopoli. Ecco perché sarebbe bene non solo che i magistrati evitassero di andare alle manifestazioni, ma anche e soprattutto che il loro sindacato, di qualunque corrente si tratti, si rendesse conto del fatto che il giudice non deve proprio “resistere” a un bel niente. In Italia non c’è il fascismo, come non c’era ai tempi di Berlusconi e Borrelli. Sarebbe ora che un po’ tutti se ne facessero una ragione. E che iniziassero a scendere dalle montagne.