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di Catello Vitiello

Il Riformista, 27 luglio 2023

Processo penale e ordinamento giudiziario rappresentano un insieme di regole e strutture che disegnano il modello processuale: la definizione dei poteri del giudice e del pubblico ministero nel codice di rito non può prescindere dall’articolazione delle carriere, perché quest’ultima contribuisce a dare sostanza all’imparzialità del giudice.

E non si intende, in questa sede, discutere della politica giudiziaria degli ultimi trent’anni né trattare il tema come fosse una bandiera ideologica che divide i buoni dai cattivi. Nonostante abbia fatto una lunga campagna referendaria a sostegno della separazione, non ho mai pensato che fosse un tema da lasciare alla volontà popolare, non perché sia contrario alla democrazia diretta, ma perché ritengo che lo strumento del referendum sia imprescindibile per le questioni giuridiche di alto valore morale ed etico, quelle - per intenderci - che il popolo si deve autodeterminare perché caratterizzano un passaggio epocale dei diritti, una conquista rispetto alla quale la rappresentatività politica deve cedere necessariamente il passo.

La separazione delle carriere non è niente di tutto questo: l’ordinamento giudiziario non è materia da referendum perché la decisione di strutturare la magistratura in un modo piuttosto che l’altro deve dipendere da una decisione politica che, tecnicamente, abbia come riferimento l’obiettivo che si intende raggiungere: volere o meno il processo accusatorio!

E la risposta il Legislatore l’ha data nel 1988 e nel 1999, introducendo un sistema accusatorio che garantisce imparzialità e terzietà del giudice attraverso il controllo dell’operato del pubblico ministero nella fase investigativa e la formazione della prova nel contraddittorio tra accusa e difesa, pilastri del “giusto processo”. Cosa mancava all’epoca per realizzare appieno l’accusatorietà? Certamente una modifica della norma costituzionale sull’obbligatorietà dell’azione penale (desueta e - nei fatti - disapplicata da tempo); ma ancor di più una riforma che modificasse le regole per l’accesso in magistratura e che costituisse due distinti organi di autogoverno: per garantire l’effettività del modello accusatorio prescelto, oltre a fissare le norme che caratterizzano le posizioni del giudice e del pubblico ministero all’interno del processo, si poteva - e si deve oggi - riformare le modalità di reclutamento e di formazione dei magistrati e, soprattutto, le regole sul controllo dell’operato e sull’avanzamento di carriera, che influiscono sulla categoria perché ne condizionano inevitabilmente il comportamento.

Di certo, le coscienze dei più si sono formate all’insegna dei principi costituzionali e solo una bassissima percentuale rappresenta un dato patologico, ma in un ambito tanto delicato per gli interessi in gioco e tanto sovraesposto mediaticamente non ci si può affidare alle coscienze e alla sensibilità della stragrande maggioranza di magistrati virtuosi perché anche un solo elemento “patogeno” causa danni irreparabili al singolo e, quindi, alla collettività di cui fa parte. E allora serve la regola, per garantire a tutti l’imparzialità “percepita ed effettiva” del giudice rispetto all’operato del pubblico ministero.

Senza dimenticare gli effetti collaterali positivi di un controllo specifico operato da due distinti e autonomi CSM e di una maggiore responsabilizzazione: si annullerebbe il rischio di personalizzazione della funzione giudiziaria; si attenuerebbe, sino a scomparire, il protagonismo mediatico; non vi sarebbe più la tentazione di ergersi a fustigatore di costumi o quella di invadere il campo della politica; si ristabilirebbe un equilibrio costituzionale tra i poteri dello Stato (forse, perché molto dipenderà anche dalla qualità della produzione normativa, aspetto sul quale il Legislatore degli ultimi vent’anni ha lasciato molto a desiderare).

Non si può pensare di tutelare, ancora oggi come prima della riforma del 1988, l’imparzialità del giudice solo attraverso una rigorosa verifica del rispetto delle norme giuridiche applicate perché il codice di rito, separando già le funzioni tra giudicante e requirente, stabilisce una debole condizione di parità tra l’accusa e la difesa concedendo al pubblico ministero - soprattutto nella fase delle indagini un peso maggiore e, di conseguenza, una maggiore libertà d’azione: il controllo deve allora partire dalla “forma”, ossia dalla più totale scissione dei ruoli evitando anche solo larvate o potenziali subalternità. Il processo accusatorio diventerà, quindi, garanzia di tutela delle libertà dell’individuo solo con una vera separazione delle carriere.