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di Barbara Stefanelli

Corriere della Sera, 15 dicembre 2023

Ci siamo scossi con quell’invito, di Elena Cecchettin, a “bruciare tutto”, abbiamo continuato a riflettere sotto la pioggia di Gibran. Gino Cecchettin dice “Anch’io ti amo tanto”. La frase arriva quasi alla fine del suo saluto alla figlia Giulia, in chiesa, a Padova, il 5 dicembre. Nel testo scritto del discorso, così come è stato poi diffuso dai giornali e sui social, prima di quel suo “anch’io” c’è un punto e prima ancora un altro pensiero - il ringraziamento per la tenerezza dei 22 anni vissuti insieme. Dice “anch’io”, quindi, non in riferimento a qualcosa che è stato appena espresso. No, lo mette lì, in mezzo, come se sentisse risuonare la voce di Giulia che gli dice “ti amo, papà”. E lui volesse risponderle ancora, e ancora. Forse erano parole che la ragazza gli ripeteva, al mattino prima di uscire per andare a scuola e dopo all’università. Oppure la sera, al momento di augurarsi buona notte. Le giovani della Generazione Z lo fanno: fanno scoccare quei “ti amo” ai genitori mentre noi avremmo osato al massimo avventurarci in un “ti voglio bene”, di solito più a nostro agio nei sentimenti inespressi, convinti e convinte, padri e madri un tempo figli e figlie, che tanto l’amore si intuisca, si capisca, sia negli atti. Anzi, non era Cesare Pavese a sostenere ne Il mestiere di vivere che i sentimenti inespressi - o meno espressi - durano più a lungo?

Questa famiglia, i Cecchettin, restano tra noi, dopo la grandine nera che si è abbattuta su di loro e su un Paese intero, l’Italia, che per una volta è sembrato non voler correre subito al riparo. Restano tra noi con la loro capacità di amarsi e di trovare le parole per dirlo. E poi, in una torsione di generosità infinita per la quale non li ringrazieremo mai abbastanza, si girano verso chi sta guardando - chi sta ascoltando - e continuano a dare voce a sentimenti, valori, aspirazioni. Lo sanno fare e lo fanno, parlano, ci parlano. “Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. Che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace”. Voglio sperare, quindi spero, so ancora sperare, qui, adesso, domani. Forse - invece di dividerci in fazioni lungo la crepa di patriarcato sì/no, tanto sappiamo benissimo dove dovremmo appianare il terreno tra uomini e donne - potremmo accogliere e propagare la loro umanità. Così semplice, e straordinaria.

Capace di affrontare la tempesta più devastante senza confinarsi nella rabbia, capace di mettersi già in posizione per imparare a muovere quei passi di danza sotto l’acqua che secondo Gibran ci guidano attraverso l’esistenza. Avevamo cominciato a scuoterci con quella chiamata a “bruciare tutto”, ripresa da Cristina Torres Cáceres, poeta e attivista peruviana, abbiamo continuato a riflettere nella pioggia invocata dal Profeta del libanese-americano Khalil Gibran.

Giulia, Elena, Davide, Gino hanno dimostrato quanto e come si può amare. Scegliendo il silenzio, rompendolo con il rumore. Dicendosi “ti amo” e “anch’io ti amo”, con coraggio, non importa se quelle poche sillabe sembrano a volte i chiodi di una scalata lenta, infinita. La loro tragedia è diventata un patrimonio da custodire. Il corpo giovane di Giulia una promessa affinché non succeda che l’amore venga confuso con il possesso, la vicinanza con il dominio, la possibilità di colpire - perché sei armato, più grosso di scheletro e muscoli, perché ti senti legittimato dalla Storia - con l’autorizzazione a farlo pure tu, ancora una volta, una in più.