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di Beppe Severgnini

Corriere della Sera, 22 settembre 2024

Passare tempo con i figli e i ragazzi in genere. Fare domande. Tutto questo aiuta, ma non garantisce nulla a nessuno. Resta, tuttavia, l’unica possibilità di cogliere i segnali di allarme. Una ragazza di ventidue anni uccide il figlio appena nato, poi parte in vacanza a New York. Un ragazzo di diciassettenne anni stermina la famiglia con sessantotto coltellate: mamma, papà, fratello. Non ci sono parole, e forse è meglio così. Di parole ne abbiamo ascoltate tante, in questi giorni, e non tutte utili. L’orrore di Paderno Dugnano e quello di Vignale di Traversetolo hanno una cosa in comune: ci sembrano incomprensibili. Quei due ragazzi erano amati e apprezzati da tutti, raccontano. Possibile che i famigliari, gli amici e gli insegnanti non avessero colto alcun segnale d’allarme? L’orrore e lo stupore, davanti a tutto questo, sono giustificati. Un po’ meno i giudizi frettolosi, le grandi teorie sull’educazione, le considerazioni apocalittiche sulla famiglia, la società e la scuola.

Mercoledì, a Verona, sono intervenuto all’apertura del congresso della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Sinpia). Ho chiesto: perché siete intervenuti poco dopo fatti tanto gravi? La risposta: perché non conosciamo quei ragazzi, quelle famiglie, quelle situazioni. Perché non vogliamo dire cose a caso. Tacere perché non ne sappiamo abbastanza: è una lezione di serietà che dovremmo tenere a mente. Invece accade che tanti parlino in modo superficiale. Il termine psicoterapeuta - medico della mente - è diventato vago, ai tempi dei social. Improvvisatori in cerca di visibilità si mescolano a professionisti coscienziosi, e la cagnara che segue non aiuta. La televisione, quando si occupa di questi temi, allestisce il circo dell’orrore. Appassionarsi allo spettacolo è malsano.

Le malattie mentali esistono. La prima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-1), nel 1952, era lungo 130 pagine e identificava 106 disturbi; l’edizione più recente (Dsm-5, 2013, aggiornato nel 2022) ha 1.050 pagine e ne raccoglie 297. Il più comune è l’ansia, ma la complessità della materia è impressionante. Un motivo in più per essere cauti.

Capire le cose da non fare, con l’aiuto degli specialisti, è un inizio. Non dobbiamo distrarci, per cominciare. Elisa Maria Fazzi, direttrice della Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ASST Spedali Civili di Brescia, e presidente Sinpia, mi spiega che molti genitori non vedono la sofferenza dei figli perché non la reggono. Ci sono padri e madri troppo occupati a inseguire la propria gioventù, certo. Ma la maggioranza quel dolore lo intuisce, non lo sopporta e lo rimuove.

Non dobbiamo arrenderci. Viviamo in una società approssimativa ossessionata dall’eccellenza. Pretendiamo la perfezione, la invochiamo, la falsifichiamo: sui social, con la retorica aziendale, con le diete maniacali e la chirurgia estetica. Noi adulti sappiamo - dovremmo sapere - che è una finzione, ma gli adolescenti? Lasciarli in balia di modelli irraggiungibili è irresponsabile. Parliamo con loro di queste cose? Protestiamo davanti a certi esempi vergognosi? Dobbiamo ascoltare, osservare, aspettare. Dobbiamo porre domande. Vere domande. “Com’è andata la scuola?” è una delle frasi più assurde che vengono pronunciate nella case italiane. La risposta è sempre: “Bene”. Ma con che tono e con faccia viene pronunciato quell’avverbio? L’impressione è che spesso i genitori - gli adulti in genere - si accontentino, cerchino solo un calmante per i propri timori. “Bene, tutto a posto”. E invece niente a posto.

Dobbiamo perdere tempo coi nostri figli, i nostri nipoti, i ragazzi in genere. Dobbiamo stare a sentirli. Dobbiamo porre le domande giuste, o almeno evitare le domande inutili. Dobbiamo imparare a tacere, ogni tanto. Dare consigli agli adolescenti è, per molti adulti, una tentazione irresistibile. Fa sentire esperti, responsabili, attenti, utili. Per avere qualche speranza di successo, però, bisogna farsi accettare, e chiedere, e ascoltare le risposte. Altrimenti sono parole al vento.

Dobbiamo esserci. Le scuole medie sono un caso di incoscienza collettiva, il buco nero dell’istruzione italiana, costringono gli studenti a un orario indecente, per dirla con la pedagogista Susanna Mantovani: dalle 8 alle 14 “come se fosse un turno di lavoro, sei ore di fila con due brevi intervalli nel mezzo e la prospettiva di dover tirare le 14.30 o le 15 per pranzare”. Gli altri Paesi europei, ricordano Gianna Fregonata e Orsola Riva, prevedono le stesse ore di lezione, ma le distribuiscono nel corso della giornata. Nel momento più delicato della vita - la prima adolescenza, che la tecnologia ha reso più vulnerabile - i ragazzi si trovano soli, se i genitori lavorano. Con quali conseguenze, negli anni a venire? Non lo sappiamo, ma lo vediamo.

Non distrarsi, non arrendersi. Ascoltare, osservare, aspettare. Passare tempo con i figli e i ragazzi in genere. Fare domande. Tutto questo aiuta, ma non garantisce nulla a nessuno. Resta, tuttavia, l’unica possibilità di cogliere i segnali di allarme. A quel punto, occorre rivolgersi - senza indugi, senza imbarazzo, senza timore - ai professionisti. I neuropsichiatri dell’età evolutiva hanno studiato molti anni e curato molta gente: sono lì per aiutarci. Confinarli nei seminterrati degli ospedali, con poche risorse, non è giusto e non è lungimirante. E invece accade, accade continuamente.