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di Rosaria Manconi*

La Nuova Sardegna, 13 giugno 2022

Che il voto referendario sui temi della giustizia potesse rivelarsi un clamoroso fallimento non lo abbiamo scoperto oggi, all’indomani del voto popolare.

L’iniziativa aveva sollevato da subito molte perplessità. Intanto per lo strano connubio fra Radicali e Lega, con posizioni politiche e motivazioni ideali pressoché agli antipodi. Gli eredi di Pannella, ispirati da una politica transnazionale caratterizzata da impegno per l’affermazione dei diritti civili, la seconda ferma da tempo su posizioni omofobiche, xenofobe e giustizialiste. Per i radicali, da sempre impegnati nelle battaglie referendarie non era difficile ritrovare nelle proposte abrogative quegli slanci libertari che caratterizzano il movimento. Meno comprensibili le ragioni del Carroccio che in Parlamento votava per l’approdo della Riforma Cartabia e contemporaneamente mobilitava il paese per un voto sugli stessi temi.

Evidente anche ai meno esperti e agli osservatori disattenti che il leader leghista cavalcava il tema della giustizia per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con la “necessità di un cambiamento strutturale”.

Aveva sorpreso anche il momento storico scelto per promuovere il voto. I cittadini erano ancora impegnati a fronteggiare gli effetti economici della pandemia e della guerra recente per pensare che la giustizia fosse tema altrettanto prioritario e contingente.

Neppure faceva ben sperare il ripetuto astensionismo e la recente bocciatura dei referendum su eutanasia e cannabis.

Una volta resi pubblici i quesiti da sottoporre al vaglio della collettività è apparso più evidente il rischio dell’insuccesso. Cosi come formulati sarebbe stato estremamente difficoltoso per i cittadini esprimere un voto consapevole e netto. Le questioni sulle quali si sarebbe dovuta incentrare la scelta ponevano in seria difficoltà persino gli “addetti ai lavori” e non solo per la estrema tecnicità delle formule. Ma è sulla raccolta delle firme che si è creata l’ulteriore perplessità.

Dopo avere preannunciato numeri superiori ai cinquecentomila Salvini ha pensato bene di gettare al macero le schede scegliendo di affidare la proposizione dei quesiti ai consigli regionali a maggioranza leghista (ivi compresa la Sardegna). Rimarrà per sempre irrisolto il dubbio sull’effettivo raggiungimento del numero minimo delle firme. Mentre e’ certo lo schiaffo metaforicamente assestato ai cittadini che avevano scelto di aderire alla iniziativa ed ai volontari che si erano spesi nei banchetti per raccogliere le firme.

Una volta messo al sicuro il risultato con l’approvazione da parte della Corte Costituzionale di cinque dei sei quesiti proposti, sulla iniziativa è calato un silenzio tombale.

Interrotto solo nella imminenza della data fissata per il voto. A quel punto si sono moltiplicati dibattuti, spesso molto aspri Nel corso dei quali i sostenitori del referendum reagivano, anche con azioni eclatanti, al denunciato boicottaggio da parte degli organi di stampa e dei fautori dell’astensionismo e del no.

Erano proprio questi, in effetti, che mettevano in guardia i cittadini (ma anche gli stessi promotori) sul rischio che le questioni così come proposte, non assicurassero quella logica binaria del sì o no tipica dei referendum abrogativi. Cosi in particolare per la legge Severino, le misure cautelare e la separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti.

Sarà che i promotori si sono mossi troppo tardi, sarà che gli italiani hanno colto le tante criticità dei quesiti, ma l’iniziativa si è rivelata un terribile flop.

Da oggi, prevedibilmente, inizierà il dibattito sulle ragioni dell’astensione.

Che quasi certamente verranno individuate nella immaturità politica degli Italiani, nel disinteresse verso i temi della giustizia, nella loro proverbiale pigrizia, nei condizionamenti subiti dalla politica, nella posizione di alcuni partiti di maggioranza e persino nella magistratura, rea di non avere avuto il coraggio di sostenere una iniziativa che aveva il pregio di affrontare temi cruciali che la coinvolgevano

E poi, al contrario, ci sarà chi vedrà in questo fallimento un segnale di grande responsabilità da parte dei cittadini che hanno deciso di “non buttare il bambino insieme all’acqua sporca” mantenendo gli impianti normativi in essere e rimbalzando al governo l’onere di affrontare i problemi di sua competenza.

A questo punto probabilmente si aprirà anche una riflessione sull’uso (e abuso) dello strumento referendario e sul suo impiego in materia penale, sul rischio che possa essere utilizzato per intercettare un “sentimento popolare” piuttosto che una opinione convinta e correttamente informata.

Ma anche sul rischio di trasformare il referendum in una banca dei sogni politici dei cittadini o in un pungolo per i Governi inerti. Peggio ancora in uno strumento di “vendetta” o rivalsa verso la politica e la magistratura. La consultazione popolare è importante e deve essere garantita, ma non tutti i temi possono essere affrontati con lo strumento referendario. Questo è di fatto il segnale che ieri hanno lanciato i cittadini ritenendo che non si può pensare di cambiare la giustizia attraverso interventi demolitivi. L’astensione va dunque vagliata, compresa e soprattutto rispettata in quanto espressione indiscutibile di libertà.

Ora, come si sul dire, la palla torna alla politica che ha il dovere di promuovere un dibattito parlamentare serio, urgente ed approfondito per la riforma organica della giustizia che sia in grado di eliminare le tante distorsioni ed i ritardi che i cittadini vivono ogni giorno sulla stessa loro pelle.

*Avvocato