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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 2 febbraio 2024

“Neanche un giorno di galera”: polemiche e proteste per la pena inflitta a Matteo Di Pietro, condannato per l’omicidio di un bimbo di cinque anni travolto da un suv a Casal Palocco. Sono gli stessi, quelli che lamentano il sovraffollamento delle carceri ma poi vorrebbero sbatterne in galera uno in più, quel tal Matteo Di Pietro, youtuber ventenne che, nel lanciare come un bolide impazzito a 120 chilometri l’ora un Suv Lamborghini per una ripresa video adrenalinica, aveva travolto una Smart, ucciso un bambino di cinque anni e mandato in ospedale la mamma e la sorellina. “Neanche un giorno di galera”, protestano giornali di destra e di sinistra.

Fanno eco gli stessi talk di tv pubbliche e private molto virtuosi nel denunciare le condizioni delle carceri ungheresi, e addirittura il ministro della Giustizia Carlo Nordio il quale, evidentemente ignorando che Di Pietro ha patteggiato una pena a quattro anni e quattro mesi nel processo di primo grado, ricorda la necessità della certezza della pena e del rispetto per l’allarme sociale destato da certi fatti.

L’uccisione di un bambino è l’uccisione di un bambino, certo. Ma, come ci ricorda sul Fatto Piercamillo Davigo, che evidentemente i codici li conosce e continua a sfogliarli, occorre sempre tenere ben distinti gli omicidi volontari, quelli commessi con intenzione, da quelli preterintenzionali, cioè oltre l’intenzione, e dai colposi, cioè commessi senza intenzione di uccidere né di fare del male. Il caso tipico di questi ultimi è l’omicidio stradale, reato ormai esteso anche a quello nautico. I morti sulle strade suscitano spesso emozioni ancora maggiori rispetto a quelli di mafia o criminalità comune. Perché sono più insensati, perché suscitano la domanda “ma si può morire così?”. Cioè si può morire alla fermata di un autobus o mentre si attraversa sulle strisce pedonali, oppure, come accaduto nel giugno scorso a Casal Palocco, essere tranquillamente in auto con la mamma e la sorellina? No, che non si può, e, diciamo la verità, ben poco si fa per prevenire tutto ciò. Che sarebbe la politica più importante per ogni governo.

Quando nel 2016 fu emanata la prima legge sull’omicidio stradale, quella che modificava tre codici, quello della strada e poi il penale e la procedura penale, il ministero dei Trasporti del governo Renzi diffuse una serie di spot tv molto efficaci sul piano della deterrenza. E un altro ministro di un governo Berlusconi, Pietro Lunardi, ottenne di più sul piano della deterrenza con la creazione della patente a punti. Quello che sicuramente non serve è la minaccia del carcere. Forse il vicepremier Matteo Salvini potrebbe prendere spunto dai suoi predecessori, e non ritenere, insieme purtroppo alla gran parte della classe politica, che sia invece l’inasprimento delle pene il balsamo prodigioso che farà diminuire i reati. La storia italiana e mondiale ci dice che non è così. Nessuno va a sfogliare il codice penale prima di commettere un reato. A maggior ragione per quelli non voluti, come gli incidenti stradali. Che, è vero, non sono proprio solamente “incidenti”, cioè accadimenti casuali, ma conseguenze di comportamenti quanto meno imprudenti, come sono quelli di chi si mette al volante dopo aver bevuto in modo eccessivo o dopo aver assunto sostanze psicotrope.

Era il caso di Matteo Di Pietro, il cui comportamento va sicuramente sanzionato. E lo sarà, come è giusto, sul piano civilistico per il risarcimento del danno, dove la battaglia tra i legali delle parti è già cominciata. Ma è sul piano penale che si sta sviluppando la solita discussione assurda. “Patente di uccidere”, ha addirittura titolato un quotidiano. Perché la difesa di Matteo Di Pietro ha concordato nel processo di primo grado per il suo assistito una pena di quattro anni e quattro mesi, di cui otto mesi sono stati già scontati ai domiciliari. La pena dunque c’è, ed è anche piuttosto severa, se consideriamo che sono state concesse le attenuanti generiche come in genere accade per gli incensurati, e che il codice prevede una pena edittale tra due e sette anni. Inoltre stiamo parlando di un ragazzo appena maggiorenne, la cui vita è già tragicamente cambiata da quel giorno in cui il suo comportamento sconsiderato e cinico lo ha portato a uccidere un bambino. La sua vita è già cambiata, e meno male che è così.

Il ragazzo, a quanto dicono i suoi difensori, si impegnerà, magari usando la sua capacità di comunicazione che nel passato era indirizzata all’esibizionismo e alla fretta di guadagnare, in campagne sulla sicurezza stradale. E intanto sarà occupato in servizi sociali in favore della comunità, come è previsto per legge da parte di chi debba scontare una pena inferiore a quattro anni. Vogliamo ricordare che quella legge del 1998 sulle misure alternative al carcere porta i nomi di un uomo di sinistra come Luigi Saraceni e di uno di destra come Alberto Simeone? Che cosa ne pensano i loro successori in Parlamento? Ora una domanda vorremmo porre a quanti stanno lamentando il fatto che il ragazzo non vada in carcere.

La domanda è: secondo voi servirebbe a qualcosa mandare Matteo Di Petro in galera? Sarebbe utile per la famiglia che ha subito questo grande dolore a causa del comportamento del ragazzo? E ancora: il carcere saprebbe rieducare questo ragazzo di 20 anni più di una sua attività in favore di qualche comunità di persone che hanno bisogno di assistenza? E infine: siamo sicuri che la certezza della pena debba coincidere con la certezza del carcere? Sarebbe umiliante dover porre questa domanda anche al ministro della Giustizia, proprio nel momento in cui si sta impegnando non per riempire ma per svuotare le carceri.