di Pasquale Pugliese*
Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2024
Oltre agli insopportabili omicidi di bambini nelle troppe guerre del pianeta, a cominciare dalla mattanza di Gaza, ci sono state recentemente due stragi in cui gli adolescenti sono stati carnefici, oltre che vittime, che è necessario non dimenticare. La prima strage è avvenuta in Italia, a Paderno Dugnano, nella quale un 17enne ha ucciso entrambi i genitori e il fratello dodicenne con un coltello da cucina. Di questa terribile vicenda è passato sostanzialmente sotto silenzio un particolare significativo emerso dai colloqui del ragazzo con gli inquirenti, ossia le sue dichiarazioni di pensare spesso alla guerra e che avrebbe voluto andare a combattere in Ucraina. Senza voler fare facili equazioni, non c’è dubbio che due anni e mezzo di vera e propria propaganda di guerra sui media, volta a promuovere la violenza delle armi per gestire il conflitto tra Russia e Ucraina, anziché la tessitura dei negoziati, ha generato anche nel nostro paese una implicita pedagogia bellicista che comincia a dare, sui soggetti più fragili, i suoi frutti avvelenati.
Qualche giorno dopo è arrivata la notizia dell’ennesima strage all’interno di una scuola Usa, nella contea di Winder in Georgia, che colpisce per la giovane età dell’esecutore 14enne che, con un fucile regalato dal padre per Natale, ha ucciso due compagni e due insegnanti, ferendo altre trenta persone. Questa nuova strage annunciata, al di là dei moventi specifici, discende da un modello di relazioni umane che partono da lontano. Gli Usa spendono da soli in armamenti quasi la metà delle spese militari globali, dividono il mondo in “amici” e “nemici” e contro i nemici non cercano soluzioni alternative al fare la guerra, risultando in stato di guerra permanente; le loro politiche strategiche vengono decise dal complesso militare-industriale e solitamente diventano presidenti coloro che, di volta in volta, forniscono maggiori garanzie alla lobby delle armi. Le stragi nelle scuole non sono dunque una “epidemia”, come definite da Kamala Harris, ma esito di una “educazione civica” assorbita fin dalla culla: l’educazione alla guerra porta le guerre anche in casa, alimentata dall’industria delle armi.
Queste due stragi dimostrano le connessioni tra globale e locale: l’impossibilità di educare efficacemente a relazioni interpersonali nonviolente se la normalizzazione della guerra diffonde la “etificazione della violenza” (Butler) nelle relazioni internazionali. È una contraddizione pedagogica che genera cortocircuiti, non solo quando si è comandati ad attivare i “meccanismi del disimpegno morale” (Bandura) qualora si venga chiamati ad andare direttamente a combattere, apprendendo ad uccidere, come accade ai giovani dei paesi in guerra, ma anche quando si richiede agli adolescenti, in fase di formazione, di imparare a gestire i conflitti personali in modalità pacifiche, con il divieto di accedere mimeticamente a quella violenza con la quale invece gli adulti tentano di risolvere ancora i conflitti internazionali. Come sanno gli educatori di pace, formatori di gestione nonviolenta dei conflitti su tutte le scale, i messaggi degli adulti contraddetti dal loro agire non hanno alcuna credibilità.
Essere educatori dentro alla violenza culturale del bellicismo diffuso richiede invece coerenza tra i diversi piani. Lo scriveva Aldo Capitini già nella prima ricerca sull’educazione civica nella scuola italiana (1964): “La scuola è connessa con ciò che è in atto, oltreché un elemento di apertura e di educazione alla pace nella conoscenza dei problemi di tutti i popoli”. Serve “impostare i rapporti con tutti in modo orizzontale, con rispetto e reciprocità”, per la costruzione di un internazionalismo nonviolento dal basso. Una distanza infinta dalle “Nuove Linee guida” per l’educazione civica del ministro Valditara, che veicolano valori di educazione finanziaria e crescita economica al servizio del modello liberista fondato sul successo individuale, seppur dentro ad una logica nazionalista volta a preparare le nuove generazioni alla “guerra di civiltà”, la nuova guerra fredda che diventa ogni giorno più calda.
Quali siano, invece, i compiti dell’educare oggi lo ha ricordato il filosofo Mauro Ceruti nell’introduzione al Festival Con_vivere di Carrara: “Hiroshima ci ha consegnato la possibilità di autodistruzione dell’umanità e questo ci obbliga alla cultura della responsabilità” - recupero dalle mie note, ma si può approfondire su Il tempo della complessità, Mauro Ceruti, 2018. “Ciò richiede un cambio di paradigma nel rapporto tra i popoli: ripudiare i giochi a somma zero, in cui uno vince e l’altro perde. Ormai è un paradigma disastroso nel quale perdono tutti, genera solo vinti. L’umanità si trova oggi obbligata ad uscire dall’età della guerra per costruire il paradigma dei giochi a somma positiva, nel quale vincono tutti. È l’unica possibilità per la sopravvivenza dell’umanità”. Si tratta dunque, nella scuola che si apre, di educare le nuove generazioni al pensiero della complessità e all’etica delle responsabilità, su tutte le dimensioni. Senza cortocircuiti.
*Filosofo, autore su pace e nonviolenza