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di Nathalie Tocci

La Stampa, 9 ottobre 2023

La parola più sentita nelle prime drammatiche ore dell’attacco brutale di Hamas nel sud di Israele è stata “sorpresa”. Ma è sorprendente questa recrudescenza del conflitto, di cui si contano già centinaia di vittime civili israeliane e palestinesi che con il passare dei giorni sono destinate a diventare migliaia? Quale verità si cela dietro lo shock e lo stupore? Implicita in un attacco di questa scala e complessità è una preparazione durata mesi.

Le milizie di Hamas, sostenute dall’Iran, non hanno improvvisato un’aggressione come questa; la hanno semmai preparata nei dettagli militari, politici, di intelligence, propaganda e terrore. Eppure, Israele vanta servizi e deterrenza militare tra i più avanzati al mondo. Dalla sorveglianza tecnologica agli informatori politici, dal blocco totale di Gaza - dove due milioni e trecentomila palestinesi vivono in una prigione a cielo aperto dal 2005 - alla collaborazione con i Paesi arabi, a partire da Egitto, Giordania ed Emirati, com’è però possibile che una tale organizzazione sia passata indenne sotto i radar? Soffermarsi sulle falle di intelligence e militari distoglie lo sguardo dal vero fallimento, che è politico. Ed è il fallimento di tutti: di Israele, dell’Autorità palestinese, dei Paesi arabi e dell’Occidente.

Israele, guidata dal governo più estremista della sua storia, è stata decisamente “distratta” nell’ultimo anno. Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, concentrato internamente sul sovvertimento dell’ordine giudiziario e internazionalmente sul riavvicinamento con l’Arabia Saudita, la questione palestinese era pressoché inesistente. E questo nonostante la violenza a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza fosse in netta ascesa: da gennaio all’altro ieri, erano già oltre 200 i palestinesi e 30 gli israeliani uccisi nel 2023 durante manifestazioni, scontri ed operazioni militari, in deciso aumento rispetto all’anno scorso. Ma non solo non se ne parlava; c’era addirittura l’illusione che il conflitto israelo-palestinese fosse dormiente, se non addirittura prossimo alla stabilizzazione attraverso lauti finanziamenti sauditi nel contesto di una normalizzazione dei rapporti con Israele. Ed ecco l’impreparazione di un governo e di uno Stato illusi che la schiacciante forza, assistita dalla sudditanza di un’Autorità palestinese corrotta moralmente e finanziariamente, la quale da anni ormai agisce come braccio armato di Israele in Cisgiordania, fosse sufficiente per dimenticarsi dei diritti calpestati dei palestinesi. Ecco lo shock della società israeliana, convinta della sicurezza garantita dalle proprie Forze armate. Uno shock che si innesta e riaccende il trauma dell’ottobre di esattamente cinquant’anni fa, quando Egitto e Siria colsero Israele in una guerra a sorpresa, quella dello Yom Kippur. È difficile immaginare che la rabbia e il dolore della società israeliana non avranno, a lungo andare, conseguenze per il premier Netanyahu e il suo esecutivo. Ma lo stupore mette a nudo un’illusione. Riportando le parole di un collega israeliano: com’è possibile credere di poter vivere in paradiso quando attorno a noi c’è l’inferno?

A ben vedere, la sorpresa e il folle abbaglio non sono stati prerogativa solo di Israele e del suo governo, ma anche dei Paesi arabi. Per mesi le discussioni sul Medio Oriente hanno ruotato attorno ai negoziati sulla normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, mediati dagli Stati Uniti, che avrebbero a loro volta ricompensato Riyadh con un partenariato di sicurezza rafforzato, avvicinandosi a quello di cui gode Israele da decenni. Rilevante, certo, ma trattandosi di una ufficializzazione dei rapporti tra due Stati che non sono in guerra, la distensione israelo-saudita è sempre stata, al massimo, una questione secondaria. I veri nodi in Medio Oriente riguardano i conflitti aperti, a partire dalla madre di tutti i mali, ossia proprio quello tra Israele e Palestina, passando a Libano e Siria, fino ad arrivare al gigantesco nodo regionale con l’Iran. Questo non vuol dire che ci sia stata una regia iraniana dietro all’attacco di Gaza. C’è stato un evidente sostegno iraniano di tipo politico, finanziario, tecnologico e militare, rivendicato apertamente da Hamas, e un chiaro interesse di Teheran a sabotare la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe rallentato se non addirittura compromesso il proprio riavvicinamento a Riyadh sancito la primavera scorsa, con il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due principali rivali del Golfo. E invece, tutta l’attenzione mediatica e il capitale politico, economico e di sicurezza non sono stati impiegati per sanare le piaghe aperte, ma per mettere un cerotto laddove non esisteva una ferita, illudendosi che i veri problemi sarebbero rimasti dormienti.

Le responsabilità sono sì della regione, ma anche dell’Occidente. Solo otto giorni fa il consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, Jake Sullivan, aveva dichiarato che il Medio Oriente non viveva un periodo così tranquillo da decenni. Al netto delle parole grottesche col senno di poi, il dato più eclatante riguarda la gigantesca miopia e ipocrisia che celano, tanto americane quanto europee. Perché se gli Stati Uniti hanno fatto poco di buono in Medio Oriente negli ultimi anni, l’Europa ha fatto ancora meno.

In Ucraina sappiamo che non c’è pace senza giustizia, e che la stabilizzazione non arriverà con un “congelamento” del conflitto, lasciando che la Russia continui a occupare territori e reprimere popolazioni ucraine: è per questo che sosteniamo Kyiv. Eppure, in Medio Oriente ci siamo illusi che una soluzione simile fosse possibile, abbiamo lasciato che i “due Stati per due popoli”, quella soluzione nata trent’anni fa con una stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca, morisse nell’hybris di Israele, la debolezza e corruzione morale dell’Autorità palestinese, il cinismo dei regimi mediorientali e l’ipocrisia occidentale. La soluzione è morta nell’oblio, ma il problema, come emerge in questi giorni di drammatica violenza, è fin troppo vivo.