sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

dalla redazione di Ristretti Orizzonti di Parma

Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2023

Anche nel carcere di Parma - come sembra in tanti altri istituti di pena - un avviso in bacheca annuncia che dal 1 ottobre le telefonate settimanali ai familiari delle persone recluse saranno ridotte a una soltanto. Ed è già notte fonda quando ci arriva questo testo da parte della figlia di una persona condannata all’ergastolo e da tanti anni ristretta nell’Alta Sicurezza del penitenziario emiliano. È accompagnata da poche righe: Perdonatemi l’orario. Lo so è tardissimo, e spero di non avervi svegliata. Ma ho appena concluso il mio scritto. Ero troppo carica di dolore misto a sgomento. Non è giusto che facciano ciò. Non lo merita nessuno, né noi né loro.

Cosa abbiamo fatto noi, figli di detenuti, di male per meritarci questo?

Quando si parla di carcere, spesso ci si concentra sull’aspetto punitivo, dimenticando che dietro le sbarre si nascondono storie umane, famiglie spezzate e bambini che pagano per i peccati dei genitori. Io sono una di questi bambini, figlia di un detenuto da trent’anni, e voglio condividere la mia storia.

Per me, ogni settimana è una lotta emotiva. Aspetto con trepidazione quel momento speciale in cui il telefono squilla e la voce di mio padre risuona dall’altro capo della linea. Sono solo dieci minuti, ma sono i dieci minuti più belli di tutta la settimana. È il nostro momento, il nostro raggio di luce in un mondo altrimenti buio e freddo

Ma ora questo piccolo conforto, che rappresenta la mia unica connessione con mio padre, è in pericolo. L’amministrazione penitenziaria ora vuole ridurre da due ad una queste chiamate settimanali. Ma cosa ne sarà di noi, figli di detenuti, se ci verrà tolto anche questo? Come se non bastasse già scontare la pena di non poter stare con nostro padre, ora dobbiamo subire questa nuova punizione?

Capisco che ci siano regole da rispettare dietro quelle mura, ma non possiamo dimenticare la nostra umanità. Non siamo noi, figli innocenti, a dover pagare per gli errori dei nostri genitori. Questa telefonata settimanale è la nostra unica via di fuga dalla tristezza e dalla solitudine che spesso ci circonda.

Mio padre è stato un detenuto modello per tutti questi anni. Ha cercato di redimersi e ha sempre sostenuto la mia crescita da dietro quelle sbarre. Ma ora, sembra che la punizione colpisca più me che lui. L’istituzione sembra dimenticare che la vera pena per mio padre è non poter vedere crescere sua figlia, non poterla abbracciare, non poterla aiutare nei momenti difficili. Mi chiedo cosa abbiamo fatto di male noi, figli di detenuti, per meritare questo trattamento ingiusto. Non abbiamo scelto questa strada, ma dobbiamo percorrerla a testa alta, cercando di dimostrare che non siamo diversi dagli altri. Abbiamo sogni, speranze e bisogni che sono gli stessi di chiunque altro.

Forse è il momento di ricordare che il carcere non dovrebbe solo punire, ma anche cercare di riabilitare. E parte di questa riabilitazione dovrebbe coinvolgere il mantenimento dei legami familiari, che sono essenziali per il recupero dei detenuti e per il benessere emotivo dei loro figli.

Spero che chiunque sia coinvolto in questa decisione rifletta sulle conseguenze umane dietro le sue azioni. La nostra voce conta, anche se spesso sembriamo invisibili. Chiediamo solo di non toglierci l’unico momento di felicità che abbiamo in questa situazione difficile.

In conclusione, chiedo a tutti voi di considerare il nostro punto di vista, figli di detenuti che soffrono in silenzio. Chiedo comprensione, empatia e la possibilità di continuare a ricevere quelle preziose telefonate settimanali, che per noi rappresentano il mondo intero. Cosa abbiamo fatto di male noi, figli di detenuti, per meritare ciò? La risposta, spero, sarà un’immediata azione per proteggere i nostri diritti e il nostro benessere emotivo.

Eva Ruà