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di Stefano Folli

La Repubblica, 15 luglio 2023

Sembra quasi che il ministro attenda rassicurazioni da Meloni sul futuro del suo progetto: se non dovessero arrivare, non sono da escludere le dimissioni. Come era prevedibile, la riforma della giustizia è un vortice che tende a travolgere tutto per lasciare alla fine le cose come stanno. Polemiche ci furono già ai tempi della legge Cartabia e ora si ripropongono ingigantite nei confronti di Nordio. Ma i tasselli del quadro sono oggi più complicati da comporre per la buona ragione che il progetto riformatore, concepito in chiave liberal-garantista, appare più spigoloso e, come si dice, divisivo. Ci sono questioni di merito e altre di clima politico generale. Vediamo più in dettaglio.

È evidente che la presidente del Consiglio non intende increspare i rapporti con il Quirinale. Né Mattarella si è mai proposto di vestire i panni di leader dell’opposizione al governo, come qualcuno vorrebbe in totale spregio dei ruoli istituzionali. Il presidente della Repubblica vuole mantenere l’equilibrio tra i poteri dello Stato, Giorgia Meloni non vuole rinunciare al nucleo della riforma. Nel concreto esiste un accordo tacito tra i due palazzi per escludere “guerre di religione”, il che equivale a mettere da parte per ora ogni aspetto suscettibile di esasperare gli animi, soprattutto tra i magistrati. Questo spiega i toni prudenti della premier negli ultimi giorni, anche prima del colloquio al Quirinale. Non vuole essere un addio alla riforma, almeno sul piano formale, bensì una sterilizzazione dei punti controversi in questa fase in cui il governo è in qualche difficoltà. I casi Santanchè, Delmastro e La Russa jr. hanno il loro peso, anzi sono piombo nelle ali dell’esecutivo.

Di conseguenza si capisce quello che dice il sottosegretario Mantovano: le priorità sono altre, gli interventi vanno modulati con criterio politico e nel rispetto delle priorità. Sottinteso: occorre tenere d’occhio quel che vuole l’opinione pubblica. Per cui abolire il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, pur fumoso e talvolta indefinibile, suona male all’orecchio del cittadino che chiede sicurezza e nessuna indulgenza verso i malviventi. Si dirà che così si accetta una forma di “giustizialismo” di ritorno. La risposta è che certe iniziative vanno condotte nei tempi e nei modi opportuni. Non è proprio una sconfessione di Nordio, ma certo è il richiamo a un’esigenza superiore (e pazienza se il ministro, un ex magistrato liberale che Meloni aveva voluto a tutti costi a via Arenula, si trova adesso esposto all’accusa assurda di essere “l’uomo che vuole aprire le porte alla mafia”, come ha osservato Piero Sansonetti su l’Unità).

È anche accaduto che il ministro, mentre si registrava una certa convergenza tra Quirinale e Palazzo Chigi, rilasciasse ieri mattina un’intervista al Corriere in cui ribadiva le sue idee riformatrici, compresa la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. È una sfida o una sorta di provocazione, come qualcuno ha ipotizzato? Probabilmente né l’una né l’altra: Nordio tiene il punto perché è stato chiamato per fare queste riforme garantiste e, del resto, muoversi nei meandri della politica non è il suo forte. Finora non ha mai voluto danneggiare il suo presidente del Consiglio, figurarsi, ma nemmeno ci tiene a essere una figura di contorno. Non è d’accordo sulla rinuncia ad abolire il concorso esterno, ma può accettare una dilazione per ragioni politiche.

Sembra quasi che stia aspettando una parola rassicurante da Giorgia Meloni sul futuro della sua riforma. Può darsi che la riceva oppure no. Nel secondo caso le sue dimissioni sarebbero da mettere nel conto. Peraltro a Palazzo Chigi non vorranno rinunciare a cuor leggero a uno dei pochi esponenti liberali del governo. Evitare la guerra con la magistratura senza perdere un presidio “garantista” nell’esecutivo: ecco la vera strettoia lungo cui si muove la premier.