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di Liana Milella

La Repubblica, 30 novembre 2022

Venerdì l’incontro con i sindaci dell’Anci. E per la sesta volta il reato sarà “ristretto” anche se ormai le condanne quest’anno sono state soltanto sei. “Molti nemici, molto onore” diceva Mussolini. E di lui, e del suo Guardasigilli Alfredo Rocco, è il reato di abuso d’ufficio. Che da allora a oggi - ormai siamo quasi al secolo - di nemici ne ha avuti a bizzeffe. Quest’oggi vestiti da sindaci. L’abuso d’ufficio, tra il 1930 e il 1931 entra nel codice penale, firmato da Rocco. Già, il ben noto Codice Rocco. Ma da quel momento, la storia dell’abuso d’ufficio - il 323 del codice penale - è storia di contestazioni e di restringimenti progressivi. Se ne susseguono ben cinque. E oggi, con il Guardasigilli Carlo Nordio, sarà la volta della sesta modifica, una sorta di definitiva clava su un reato che lo stesso Nordio voleva eliminare del tutto.

Era il 2017, quando l’allora ministro degli Affari regionali Enrico Costa lo mise a capo di una commissione per affrontarlo e riscriverlo, e lui disse che quel reato “non era riformabile, perché se ci fosse un passaggio di soldi allora sarebbe una corruzione, altrimenti non c’è niente”. Costa lo assecondò, convinto com’è tuttora che “l’abuso d’ufficio è solo lo strumento usato dall’opposizione per fare esposti temerari che però, finiti nelle mani dei giudici, possono stroncare la vita di un politico”. 

Ma che succederà venerdì mattina quando Nordio e il suo vice ministro Francesco Paolo Sisto affronteranno i sindaci dell’Anci, capeggiati dal battagliero primo cittadino di Bari Antonio De Caro, che vogliono portare a casa la “morte” dell’abuso d’ufficio per salvare la loro vita di amministratori pubblici? Lo slogan, gridato fino all’ossessione, è che l’abuso d’ufficio crea “la paura della firma”, cioè gli amministratori pubblici si bloccano e non fanno quello che dovrebbero fare per paura di beccarsi un esposto, e finire sotto processo. Con l’incubo della legge Severino - un danno nel danno, dicono loro - che nella versione del 2012 impone la sospensione dall’incarico per gli amministratori condannati anche solo in primo grado. 

Cambierà tutto questo? L’abuso d’ufficio prima e poi pure la Severino? A oggi, da via Arenula, filtrano solo indiscrezioni. Per certo si sa che Antonello Mura, toga di Magistratura indipendente, neo capo dell’ufficio legislativo, ex procuratore generale di Roma, che Nordio ha portato con sé, ha aperto un dossier per riscrivere il reato. La supervisione - per volontà dello stesso Nordio - è nelle mani di Sisto. Qualsiasi ritocco viaggia sull’orlo del precipizio perché si presta all’accusa del “via libera” indiscriminato a qualsiasi decisione. 

La prima versione dell’abuso d’ufficio suona lineare. Anche dal titolo. Che include in questo reato tutto quello che non è corruzione, cioè passaggio di denaro. Indicativo infatti il titolo della norma: “Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”. Ma ecco il testo: “Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a diecimila”. 

Eccoci alla seconda versione. Nel 1990 l’articolo 323 comincia a “restringersi”. Innanzitutto si chiamerà solo “abuso d’ufficio”. Nel testo entra la figura dell’incaricato di un pubblico servizio, ma appaiono evidenti distinguo: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni. 

E siamo alla terza versione del 1997 che restringe ancora i confini dell’abuso d’ufficio, grazie alla formula “in violazione di norme di legge o di regolamento”. Ecco il testo: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Nel 2012, con la legge anticorruzione firmata dall’allora Guardasigilli Paola Severino, arriva una quarta versione che però si limita ad aumentare la pena che sarà da “uno a quattro anni”. 

E siamo alla quinta versione, quella del luglio 2020 firmata dall’allora premier Giuseppe Conte nel decreto Semplificazioni. Una modifica che, pur assai cospicua, comunque non basta ancora ai sindaci. Eccola. “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Quell’abuso del 1930 che era assai generico diventa sempre più stringente, e tocca al giudice dimostrare che effettivamente un reato c’è stato. 

Quando il nuovo abuso d’ufficio approda nel 2021 alla Consulta - relatore Franco Modugno e presidente Giancarlo Coraggio - perché è stato modificato con un decreto legge, ottiene un via libera perché l’aver ristretto “la sfera applicativa del reato non nasce soltanto dalla necessità di contrastare la ‘burocrazia difensiva’ e i suoi guasti derivanti dalla dilatazione dell’applicazione giurisprudenziale dell’incriminazione”.

Il numero dei reati - È un fatto che le condanne precipitano. Come dimostra questa tabella del ministero della Giustizia. Dal 1997 a oggi le condanne per abuso d’ufficio da 546 diventano 6 nel corso del 2022. Ma i sindaci non vogliono comunque restare sulla graticola del processo penale e dei suoi tre gradi di giudizio. Vogliono le mani libere. 

E adesso che succede? L’ultima stretta - Di certo la situazione già cambia con una minuscola norma della riforma penale della Guardasigilli Marta Cartabia. Come dice il suo consigliere Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale a Milano e direttore della rivista “Sistema penale”: “La riforma viene incontro proprio alle preoccupazioni dei sindaci perché riduce gli effetti negativi dell’iscrizione delle notizie di reato per abuso d’ufficio e perché, con la nuova regola per l’archiviazione, rende più difficile il rinvio a giudizio”. Poche righe nella legge, ma evidentemente di peso. Riguardano gli effetti dell’iscrizione di una notizia di reato “ai fini civili e amministrativi”. E la norma recita così: “La mera iscrizione non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito”. Ma questo ai sindaci e agli amministratori locali non basta. Loro non vogliono finire affatto in quel registro degli indagati. Vogliono molto di più. 

E siamo a oggi, all’ultima stretta sull’abuso d’ufficio che si preannuncia drastica. Almeno stando alle “voci” che filtrano da via Arenula. Perché verrebbe ridotta proprio l’area della rilevanza penale, che cancellerebbe “l’abuso di vantaggio”, cioè fare un atto amministrativo che giova a qualcuno oppure lo svantaggia. Mentre resterebbe invariato l’abuso d’ufficio che produce un effettivo danno diretto, mirato proprio a una singola persona, ad esempio negare un permesso o un’autorizzazione a chi invece ne ha pieno diritto. Insomma, dell’abuso d’ufficio ne resterebbe solo una metà.