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di Elisa Messina

Corriere della Sera, 6 dicembre 2023

Sono 110? Oppure 88? O addirittura 40? Quanti sono stati davvero i femminicidi in Italia dall’inizio del 2023 fino al momento in cui scriviamo? Giunti quasi alla fine di un anno in cui, forse più di ogni altro anno, siamo stati portati a riflettere sulla violenza maschile sulle donne, questa domanda non ha una risposta unica. Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, a Milano sono stati letti i nomi di 107 donne uccise. Davanti al ministro dell’Interno Piantedosi, Nunzia de Girolamo, il 25 novembre ha parlato di “109 femminicidi” e il ministro non ha eccepito. Ci sono poi letture sorprendentemente diverse, come quella fatta dal prefetto di Padova Francesco Messina (l’ex capo dell’Anticrimine), secondo il quale (dichiarazione del 25 novembre), non sarebbero più di 40. Nel sito del Ministero dell’Interno, il report sugli omicidi volontari (aggiornato ogni settimana e l’ultima versione è del 4 dicembre) conta 109 donne uccise di cui 90 ammazzate in ambito familiare/affettivo.

Alla data del 25 novembre le vittime in ambito familiare-affettivo erano 87, quindi un numero diverso da quel 106 letto e scritto nelle tante celebrazioni ufficiali contro la violenza. E 88 vittime conta il nostro database della 27esimaOraL’Osservatorio del movimento femminista “Non una di meno”, aggiornato però all’8 novembre, allarga ulteriormente il tiro e conta 110 vittime suddivisi però in “94 femminicidi, 1 trans*cidio, 9 suicidi e 6 morti in fase di accertamento indotti o sospetti indotti da violenza e odio di natura patriarcale”.

Come è possibile che su un dato apparentemente così oggettivo e terribile ovvero la conta delle donne vittime di delitti di genere, ovvero, uccise in quanto donne, da uomini, ci possa essere discordanza? Tutto dipende dal fatto che non esiste una banca dati istituzionale dedicata ai femminicidi perché “giuridicamente” il femminicidio non esiste nel nostro Codice Penale. Ma non esiste ancora neppure una definizione istituzionale di femminicidio condivisa dai 27 paesi dell’Unione europea come sottolinea anche l’Eige, l’agenzia europea per l’uguaglianza di genere. Quindi diventa difficile dare il numero “ufficiale” di delitti la cui definizione criminologica e giuridica ancora non c’è. In Italia e in Europa.

Spieghiamola ancora meglio. Il Codice Penale non identifica il femminicidio come un preciso reato: è un omicidio (articolo 575) ma non esiste come “fattispecie di reato” come, per esempio, l’omicidio stradale. Dal 2013 a oggi, una serie di decreti hanno introdotto pene più severe per i delitti di donne che avevano una relazione qualificata (quindi soprattutto familiare o affettiva) con l’omicida. Esiste, per questi casi, l’ipotesi di delitto aggravato. Ma non esiste all’interno del nostro sistema di leggi penali la parola “femminicidio”. Così come non esiste la definizione giuridica di “delitto di genere” che poi è la stessa cosa. Il report settimanale del Ministero dell’Interno non usa la parola femminicidio ma si intitola “Monitoraggio e analisi dell’andamento dei reati riconducibili alla violenza di genere”.

Come se ne esce? In assenza di definizioni giuridiche dobbiamo cercare le definizioni statistiche. Come spiega l’Istat nel suo rapporto annuale sul Benessere equo e sostenibile (Bes): “vengono definiti omicidi di genere, comunemente detti femminicidi, quelli che riguardano l’uccisione di una donna in quanto donna. Le variabili necessarie per identificare un femminicidio sono molte e riguardano sia la vittima, sia l’autore sia il contesto della violenza”.

Facendo poi riferimento alle definizioni date dalla Commissione statistica delle Nazioni Unite l’Istat precisa che esistono tre tipologia di “gender-related killing”: gli omicidi di donne da parte del partner, quelli da parte di un altro parente o di un’altra persona, sia conosciuta sia sconosciuta, che però avvenga attraverso un modus operandi o in un contesto legato alla motivazione di genere. Tra queste sono comprese, per esempio, anche le donne vittima della tratta, del lavoro forzato, dello sfruttamento della prostituzione. Le donne che sono state private illecitamente della libertà, che sono state violentate prima dell’uccisione. Un altro discrimine che ci permette di parlare di femminicidio è la differenza di posizione gerarchica tra la vittima e l’autore; se il corpo è stato abbandonato in uno spazio pubblico; se la motivazione dell’omicidio costituiva un crimine d’odio di genere (cioè se vi era un pregiudizio specifico nei confronti delle donne da parte degli autori).

L’Istat precisa poi che in Italia, al momento non sono disponibili tutte queste informazioni, ma che “in futuro si potranno rilevare grazie alla collaborazione inter-istituzionale con il Ministero dell’Interno, rinforzata dalle richieste della Legge 53/2022 che obbliga l’Italia a misurare la violenza di genere”.

L’Eige, l’agenzia europea per la parità di genere, seguendo la linea data dalla commissione statistica delle Nazioni Unite, ha steso un rapporto sul tema facendo una comparazione tra le raccolte dati e gli indicatori usati nei vari Paesi Ue e nel Regno Unito. E arriva a concludere, per esempio, che, oltre ai casi di delitti compiuti da partner o ex partner, sono da considerare femminicidi “l’uccisione di donne e bambine per i cosiddetti motivi d’onore e altre uccisioni conseguenti a pratiche dannose, l’uccisione mirata di donne e ragazze nel contesto di conflitti armati, nonché i casi di femminicidio collegati a bande, alla criminalità organizzata, a traffici di droga e alla tratta di donne e ragazze. E anche i delitti commessi contro donne a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere”.

A questo punto è evidente che la definizione statistica e sociologica si muove su binari diversi rispetto a quelli usati dal report del Viminale. Il rapporto della Polizia infatti, distingue, tra le 109 donne uccise dal primo gennaio al 4 dicembre, i delitti commessi in ambito familiare affettivo (90) e tra questi, quelli commessi da partner o ex partner (58). Ovvero conta gli omicidi di donne che avevano una relazione, per così dire “qualificata” con l’autore del delitto. Ma non rientrerebbero tra le 90, per esempio, le prostitute uccise da un cliente occasionale, che invece, sulla base delle classificazioni statistiche delle Nazioni Unite e dell’Eige dovrebbero rientrare a pieno nella definizione del delitto di genere, o quelle uccise in ambito lavorativo.

Ma del resto la Polizia di Stato non può che rifarsi al nostro contesto giuridico. Per questo, anche durante le celebrazioni del 25 novembre praticamente ovunque si è citato il numero complessivo delle donne uccise (107 al 23 novembre, 109 al 4 dicembre) e nessuno (ministro compreso) ha eccepito. E quel “40 femminicidi al massimo” di cui parla il prefetto di Padova (ex direttore dell’anticrimine)? Messina fa, probabilmente, un distinguo sulle motivazioni del delitto compiuto da partner o ex partner, basandosi solo sulle motivazioni affettive ed escludendo, per esempio, quelle economiche/ereditarie.

Come vediamo il problema di definizione resta. Ma allora, 109 donne uccise vanno intese 109 presunti femminicidi? In un certo senso sì. Ed è per questo che, soprattutto in occasione del 25 novembre, si considera il dato delle donne uccise tout court. Poi subentrano però una serie di distinguo che, come abbiamo visto, rispondono a classificazioni ma soprattutto ad approcci diversi: c’è quello giuridico/penale e quello statistico/sociologico.

Esiste anche una definizione “politica”? Volendo cercare una prima definizione in ambito politico-istituzionale nel nostro Paese, la troviamo nel dossier realizzato dalla prima Commissione parlamentare italiana sui femminicidi: “Uccisioni di donne da parte di un uomo determinate da ragioni di genere”. Le parlamentari si sono basate sulle dichiarazioni della Convenzione di Istanbul, ovvero la convenzione del Consiglio d’Europa “sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” ratificata anche dall’Italia nel 2013, in cui si definisce la violenza di genere come “una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. La violenza di genere, ovvero quella contro le donne in quanto donne, in quest’ottica, non è quindi un’emergenza ma un fenomeno strutturale per via di stereotipi sedimentati nella nostra società che ne influenzano l’organizzazione e legittimano la disuguaglianza tra i generi. Questo è, precisano le senatrici rifacendosi alla Convenzione, il sottobosco della violenza di genere e della sua più estrema manifestazione: il femminicidio.

Per concludere, quando si parla di femminicidio non si può prescindere dal contesto di discriminazioni e pregiudizi sociali in cui questo avviene. E l’Enciclopedia Treccani, citando i più importanti studi sul tema, arriva a precisare che il termine femminicidio “indica sempre la motivazione patriarcale alla base di questi omicidi e altre forme di violenza sulle donne”. Ecco a cosa ci riferiamo quando, accademicamente, si usa la parola “patriarcato”.

La definizione politica, dunque, esiste e si aggiunge a quella statistica e ne delinea il contesto. Tirando le fila di tutti questi ragionamenti dobbiamo concludere che finché gli approcci al femminicidio saranno diversi, vedremo conteggi diversi. In attesa di una definizione giuridica del delitto di genere, ogni conteggio difforme da quello del Viminale può essere definito ideologico come quello dell’Osservatorio di “Non una di Meno”, ma forse questo è un modo troppo facile per liquidare il problema. E che, oltretutto, presta il fianco a letture strumentali e divisive di un tema che, invece richiede unità.