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di Luciano Piras

La Nuova Sardegna, 28 febbraio 2023

Inaugurato nel 1969, divenne la Cajenna delle Brigate Rosse. È successo esattamente quarant’anni fa: 1983. Era il mese di dicembre. A Roma Papa Giovanni Paolo II entrava a Rebibbia per incontrare Mehmet Alì Agca, il fanatico terrorista turco che gli aveva sparato il 13 maggio di due anni prima. A Nuoro, invece, il cappellano don Salvatore Bussu usciva dal supercarcere di Badu e Carros sbattendo clamorosamente i cancelli.

L’umile prete di Ollolai si era schierato con i brigatisti rinchiusi in Barbagia in sciopero della fame per denunciare le condizioni disumane cui erano sottoposti dal regime di massima sorveglianza. Dopo tanti anni di sommosse, rivolte e persino omicidi, quella era la prima manifestazione pacifica dei detenuti in Italia. Le parole di don Bussu esplosero, i riflettori vennero puntati su Badu e Carros. Da lì parti il dibattito parlamentare che portò alla riforma Gozzini.

I fatti del 1983 fecero da spartiacque. Nel sistema penitenziario italiano c’è un prima e un dopo Badu ‘e Carros. Un penitenziario nato già con i riflettori puntati. Considerato “un modello di edilizia carceraria”, così nel 1966 lo definì l’architetto Bruno Zevi mentre erano ancora in corso i lavori di costruzione, il penitenziario nuorese era moderno, all’avanguardia in tutta Europa, fuori dalla città e quindi isolato e facilmente controllabile dalle camionette a prova di proiettile in servizio di perlustrazione. Inaugurato nel settembre 1969, Badu ‘e Carros era stato progettato nel 1953, su commissione del ministero dei Lavori pubblici.

Saloni spaziosi, vari laboratori, celle riscaldate, luminose, con i servizi igienici, fornite persino di apparecchi radio e di televisori. Una svolta rispetto alle vecchie carceri nuoresi di via Roma, la Rotonda, una fortezza borbonica demolita nel 1975. Ciò nonostante, il nuovissimo carcere fu da subito teatro di diverse rivolte, ben tre nei primi sei anni. Nel 1973 i detenuti salirono sul tetto e ci restarono per due giorni e due notti, poi si arresero. Nulla a che vedere con le sommosse dei terroristi degli anni seguenti e neppure con l’assalto fallito del 1979.

Badu e Carros, ormai supercarcere per volontà del generale dell’Arma Carlo Alberto Dalla Chiesa, era finito nel mirino della colonna sarda delle Brigate Rosse, Barbagia Rossa, un gruppo militante che alla sottocultura criminale barbaricina coniugava la teoria e la prassi rivoluzionaria di matrice marxista-leninista.

Una deriva che prendeva forma, esattamente come aveva già paventato l’allora cappellano don Giovanni Farris. Il prete di Lodè mise in guardia Nuoro dai molteplici rischi di natura giuridica, ma anche e soprattutto psico-sociologici, ambientali, culturali. “Le conseguenze possono essere disastrose, è una spinta alla guerriglia da cui, almeno in parte, eravamo immuni”. Lo stesso procuratore della Repubblica di Nuoro, Francesco Marcello, era stato chiaro: “Noi giudici di Nuoro - disse - siamo contrari alla presenza della sezione differenziata a Badu e Carros, perché riteniamo estremamente pericolosa la commistione tra delinquenti politici e delinquenti comuni”.

Il bollettino di guerra arrivò di lì a poco: da carcere di massima sicurezza, Badu e Carros, la Cajenna delle Brigate Rosse, divenne un vero e proprio mattatoio. Nel 1980 vennero trucidati Biagio Jaquinta, di Cosenza, e Francesco Zarrillo, di Caserta. Nel 1981 fu la volta di Claudio Olivati, di Cervicara, strangolato. È di pochi mesi dopo, invece, il massacro di Francis Turatello “Faccia d’angelo”, boss della mala milanese, squartato in un cortile interno del carcere durante l’ora d’aria.