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di Domenico Tomassetti

Il Dubbio, 11 dicembre 2023

Pochissime ore dopo, a notte fonda, di fronte ad uno sparuto gruppo di giornalisti, fra cui Camilla Cederna, Corrado Stajano e Aldo Palumbo, il questore Guida dichiara che Pinelli “era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato … non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa insomma”, avvalorando l’ipotesi del suicidio. Pinelli, secondo Guida, avrebbe avuto uno scatto improvviso, si è gettato verso la finestra, che era socchiusa perché il locale era pieno di fumo, lanciandosi nel vuoto. Calabresi è in piedi dietro di lui, sa che le cose che dice il questore sono false. Pinelli non aveva confessato. Era stanco, sì, ma non rassegnato. Aveva firmato i verbali. Aspettava solo di tornare a casa dalla sua famiglia.

In quello stesso momento, Licia Pinelli, in compagnia della madre del marito, entra nella sala dell’obitorio dell’Ospedale Fatebenefratelli. Giuseppe Pinelli è sdraiato sul tavolo di marmo, coperto da un lenzuolo eccetto la faccia. Alla madre viene da piangere, ma si trattiene. Quello che colpisce i giornalisti, che le aspettano fuori dalla sala mortuaria, è la composta dignità delle donne. La stessa dignità operaia che traspare dalle immagini del funerale di Pinelli, che Luigi Calabresi e Gemma Capra vedono al telegiornale: la moglie Licia e le due figlie, seguono il feretro, accompagnato dalle bandiere rosse e dai pugni chiusi di una grande folla. È profonda e sincera la commozione che accompagna la bara trasportata da un pulmino Fiat 850.

Quei giorni cambiano radicalmente la storia del nostro Paese - Lotta Continua - fucina di veri talenti giornalistici, diretta da Adriano Sofri - inizierà una feroce campagna mediatica contro Luigi Calabresi, additato come certo colpevole della morte di Pinelli. Il 16 giugno 1970, in un articolo anonimo, si legge “questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme... A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per “falso ideologico in atto pubblico”; noi che, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento”. Le strade e le piazze di tutta Italia si riempiono di scritte “Calabresi assassino”. Anche la stampa “indipendente” pubblica un profluvio di notizie sul Commissario: uomo della CIA, addestrato negli USA, esperto di arti marziali. Tutto plausibile, ma tutto falso. Solo una persona gli rimane amica: Enzo Tortora. Scrive per il Giorno e per la Nazione, essendo stato allontanato dalla Rai, perché aveva denunciato la lottizzazione politica dell’Azienda. Prova a difenderlo nei suoi articoli.

Il Ministero dell’Interno, invece, lo lascia solo. Anzi, attraverso solerti funzionari dell’Ufficio Affari Riservati, lo invita a denunciare Lotta Continua per diffamazione. Il processo, che ne seguirà, sarà il definitivo calvario per il Commissario e la sua famiglia. Su L’Espresso verrà pubblicata, per tre settimane consecutive dal 13 giugno 1971, una lettera aperta, sottoscritta da oltre 700 intellettuali, dal seguente tenore letterale: “Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. (...) noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni”.

Il 17 maggio 1972, alle 9 del mattino, Luigi Calabresi esce dal portone della sua abitazione per andare in ufficio. È felice: ha da poco saputo che sarà trasferito a Roma. Tornerà a casa. Lì nascerà il suo terzo figlio. La famiglia finalmente si allontanerà da Milano e dai suoi veleni. Sembra una palingenesi. Percorre pochi metri a piedi, fino al punto in cui ha parcheggiato la sua Fiat 500. Calabresi si piega per aprire lo sportello quando viene raggiunto da un colpo alla schiena e uno alla testa. Trasportato d’urgenza in ospedale, morirà un’ora più tardi. Ha 34 anni. Lascia la moglie Gemma, incinta, e due figli: Mario e Paolo. Il terzo, Luigi, nascerà pochi mesi dopo la sua morte.

Il giorno successivo Adriano Sofri scrive su Lotta Continua che “l’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse, anche se questo non può indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”.

Le indagini sulla morte di Pinelli si concluderanno nel 1975 - L’inchiesta, condotta da Gerardo D’Ambrosio, escluderà sia l’ipotesi del suicidio che quella dell’omicidio. Per il Giudice è “verosimile l’ipotesi di precipitazione per improvvisa alterazione del centro di equilibrio. Improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto. Tutti gli elementi raccolti depongono per questa ipotesi. La mancanza di qualsiasi indizio e di qualsiasi motivo per l’omicidio volontario. L’assenza di qualsiasi causa scatenante l’impulso suicida”. Nella sentenza, però, è chiaramente affermato che “l’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli”. Vi è, però, un’altra interessante conclusione nell’inchiesta D’Ambrosio. Il magistrato si chiede perché il questore Guida avesse frettolosamente convocato una conferenza stampa, nel cuore della notte, avvalorando l’ipotesi del suicidio. Sostiene D’Ambrosio che “la versione del suicidio era gradita “AI SUPERIORI”, che l’avevano, senza esitazione alcuna, utilizzata come strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici”.

La sottolineatura, con il tutto maiuscolo, “AI SUPERIORI” nel testo originario dattiloscritto è particolarmente significativa, commenterà anni dopo Bruti Liberati, poiché “nel 1975 D’Ambrosio non poteva conoscere la circostanza che già dalla notte del 12 dicembre erano giunti in Questura a Milano alti funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, che di fatto, pur senza mai comparire negli atti ufficiali, avevano assunto la direzione delle indagini”. Il 3 luglio 1988, sedici anni dopo il delitto, Leonardo Marino, ex militante di Lotta continua, si presenta ai carabinieri per confessare di avere partecipato all’uccisione del commissario Calabresi. Si accusa di aver rubato e guidato l’auto su cui viaggiava l’autore materiale dell’omicidio, Ovidio Bompressi, e di avere agito su mandato di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.

Il 2 maggio 1990 la Corte d’Assise di Milano condanna a ventidue anni Sofri, Bompressi e Pietrostefani, a undici anni Marino (prosciolto per prescrizione nei successivi gradi di giudizio).

Il 5 ottobre 2000, la prima sezione penale della Cassazione confermerà definitivamente le condanne di Sofri, Pietrostefani e Bompressi. Adriano Sofri si costituisce in carcere e sconterà tutta la sua pena, assumendosi la responsabilità morale del delitto, ma rifiutando quella penale. Pietrostefani si rifugia in Francia, dove tutt’ora vive. Bompressi, dopo brevi periodi di detenzione, ottiene prima gli arresti domiciliari e, nel 2006, l’estinzione della pena per motivi umanitari.

Le indagini sulla strage di piazza di Fontana, costellate da una serie impressionante di depistaggi e insabbiamenti, portano alla celebrazione di ben undici processi: a Catanzaro, a Roma, a Milano - Poche condanne, mai definitive, molte assoluzioni. Il 3 maggio 2005 la Cassazione - pur confermando l’assoluzione pronunciata dalla Corte di Appello di Milano nei confronti dei tre principali imputati (Zorzi, Maggi e Rognoni) - ha tuttavia affermato che la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili, in applicazione del principio del ne bis in idem, in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Sebbene gli ordinovisti siano stati riconosciuti come gli ispiratori ideologici e i mandanti, non è mai stato mai individuato a livello giudiziario né l’esecutore materiale, ossia l’uomo che pose personalmente la valigia con la bomba, né gli altri mandanti “occulti”. Si raggiunge, però, un altro approdo giudiziario: vengono accertati i depistaggi dei servizi segreti per accreditare la pista degli anarchici, trascurando volutamente quella ordinovista.

Emerge almeno la verità storica, riassunta da Guido Salvini, l’ultimo pm ad occuparsi di Piazza Fontana: “Anche nei processi conclusisi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l’insediamento di un governo autoritario. Erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il “pericolo comunista”, ma la risposta popolare rese improponibili quei piani. L’on. Rumor fra l’altro non se la sentì di annunciare lo stato di emergenza. Il golpe venne rimandato di un anno, ma i referenti politico- militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all’ultimo momento i nazifascisti”. Ma non si fecero scrupolo di coprirli, attraverso la creazione della falsa pista anarchica, e neppure di utilizzarli nelle successive azioni riconducibili alla strategia della tensione.

Intanto, mentre la giustizia lentamente (non) fa il suo corso, Licia Rognini e Gemma Capra hanno cresciuto, da sole, le figlie e i figli di Giuseppe e Luigi - Sono rimaste a vivere in una Milano divisa tra l’odio ideologico per il commissario e la colpevole indifferenza per il ferroviere, sopportando una quotidiana fatica che non ha consentito di rimarginare le ferite. Si incontrano per la prima volta al Quirinale, il 9 maggio 2009, invitate dal Presidente della Repubblica, per ricordare che le ultime due vittime innocenti di Piazza Fontana sono state Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. Pochi mesi prima del 12 dicembre 1969, avevano condiviso la lettura dello Spoon River: “A volte la vita di un uomo si trasforma in un cancro per le ammaccature continue... Ed io ero là, infangato in un pantano di vita in cui camminavo credendolo un prato”.