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di Gennaro Grimolizzi

Il Dubbio, 5 gennaio 2024

Sensazionalismo e suggestione possono impossessarsi dell’informazione e provocare seri danni. I rischi che si corrono anche in riferimento a recenti inchieste giudiziarie sono tanti, a partire dalla gogna mediatica. Ne abbiamo parlato con il professor Alberto Abruzzese, sociologo dei processi culturali e comunicativi.

Professor Abruzzese, l’elemento della suggestione svolge nei processi mediatici un ruolo decisivo per una maggiore diffusione delle notizie?

Sicuramente. L’informazione, anche quando riguarda temi sostanziali e di grande rilievo, si basa su dinamiche legate al consumo personale degli eventi. Nell’ambito della legge e delle diverse articolazioni della legge, che riguardano le sfere alte del potere e le normative che regolano la società, l’emotività delle persone è di continuo sollecitata. È naturale che il mercato dell’informazione speculi su questo. C’è un meccanismo che va continuamente fatto funzionare. Mi riferisco all’attrazione a leggere. Per fare ciò bisogna andare al fondo delle emozioni delle persone.

Un meccanismo molto particolare?

Direi perverso. Questo meccanismo probabilmente è perverso perché l’ambito affidato alla sfera dei consumi impatta su una società che ha, ormai, degli argini molto deboli. Ha delle capacità di controllo altrettanto deboli. Pensiamo alla situazione in cui si trova la persona nei confronti della notizia. Scatta un meccanismo emotivo che gli fa prendere parte, crea curiosità e genera una reazione volta a sentirsi vittima o protagonista rispetto a quanto funziona o non funziona nella giustizia.

Oltre al meccanismo emotivo personale, occorre prendere in considerazione pure il contesto generale?

C’è una società che evidentemente ha sempre di più indebolito il dispositivo di autocontrollo della persona. Anche temi di grande rilevanza, come la giustizia, vengono abbandonati a una dimensione ondivaga, emotiva e variabile. In questo modo il campo dell’attenzione sociale è ristretto allo spazio chiuso della persona, all’emozione immediata, essendo cadute le capacità di formazione della persona. La percezione razionale e quella emotiva hanno confini sempre più indistinguibili. La curiosità del mondo invece che una attenzione al mondo.

Tra le conseguenze che derivano da alcune modalità di acquisizione e diffusione delle notizie abbiamo la gogna mediatica con la distruzione della reputazione di chi ne è vittima. È anche questo un segno dei tempi?

Il fenomeno da lei indicato, purtroppo, ha origini lontane, anzi, è sempre esistito. Si tratta di un fenomeno che riguarda lo spazio più intimo delle persone e delle relazioni interpersonali. Sappiamo benissimo, anche solo nella dimensione familiare, quanto sia facile che scattino meccanismi di interdizione, di maldicenza, di aggressività. Questi fenomeni diventano drammatici e deleteri perché nella cornice e nello spazio sociale in cui avvengono si sono indeboliti molti dei valori di riferimento e dei meccanismi di controllo. Viviamo dando rilevanza all’immediato, piuttosto che a valorizzare quanto la società, nel suo insieme, riesce ad ordinare secondo distinzioni di affidamento e credibilità. Le singole persone, pertanto, decidono di schierarsi o di non schierarsi in base alla loro sfera personale e senza tenere conto di un senso di appartenenza ad una organizzazione sociale. Prevale, dunque, lo spettacolo emotivo sul senso di responsabilità sui fatti di cui si viene informati.

I mezzi di informazione hanno rilevanti responsabilità?

Gli apparati di informazione operano a più livelli, essendo stratificati tra i loro vertici, che risentono dell’intreccio dei poteri in campo, e tra gli esecutori. Un buon giornalista sa che sta facendo il proprio lavoro, a beneficio della propria carriera, se riesce ad attrarre il lettore o lo spettatore. C’è un meccanismo a spirale che porta a sfruttare la notizia soprattutto come elemento di attrazione al di là della rilevanza della notizia in sé, separandola dal semplice effetto emotivo.

In merito all’inchiesta Inver-Anas, un giornale ha usato l’espressione “spunta il nome di” per provocare l’effetto suggestione. Una modalità di agire che non tiene conto di alcune conseguenze deleterie che si possono avere?

Scatta un meccanismo pericolosissimo perché non sono salvaguardati alcuni dispositivi di sicurezza, chiamiamoli così, volti ad evitare che quello che è maldicenza venga preso come verità. Pensiamo ad un delitto. Non si riflette sulle prove reali, sull’autore del delitto e sui motivi per cui è stato commesso, ma si pone l’attenzione sull’attrattiva, sull’immaginarsi l’autore del delitto o attribuire il delitto a qualcuno piuttosto che a un altro. Si vuole trasferire la ricerca della verità e le prove necessarie per legittimare la verità su un livello, precostituito, del conflitto tra diverse posizioni. Nel caso al quale lei ha fatto riferimento, si partecipa alla scena accontentandosi del fascino dello scontro.

I giornalisti hanno una grande responsabilità. Dovrebbero contribuire a raffreddare l’intensità dell’informazione giudiziaria per renderla più obiettiva possibile ed evitare danni? Cosa ne pensa?

Potremmo generalizzare dicendo che l’etica del giornalista fa i conti con un sistema complessivo dei ruoli sociali cui sono venute sempre meno le capacità di controllo sul proprio lavoro. Abbiamo diversi professionisti, in questo caso ci stiamo soffermando sui giornalisti, che fanno il loro lavoro con sensibilità diverse. Si è accentuato un rapporto sbilanciato tra professione e vocazione della persona. Prevale la tecnicalità dell’informazione o, nel caso del politico, la strategia in termini di potere, piuttosto che il senso di responsabilità sulla propria funzione. Una situazione che si è accentuata con il trascorrere del tempo. Le professioni dipendono da meccanismi di formazione. Questi ultimi dovrebbero essere messi in moto sin dalla giovane età di ogni individuo. Siamo caduti sempre più nell’errore di trasmettere tecniche legate alla professione, anziché i valori legati alla persona. Il senso di responsabilità della persona, rispetto a quello che dice e a quello che fa, è passato in secondo piano. La questione del conflitto tra professione e vocazione non nasce oggi. Nell’attuale momento storico è andata in crisi la capacità di tenere insieme i valori della persona con le esigenze della professione. Succede tanto nell’informazione quanto nella politica. La politica lavora per detenere il potere, l’informazione per conservare il mercato.