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di Tiziana Maiolo

Il Riformista, 19 agosto 2022

Il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nelle lettere scritte prima di togliersi la vita diceva: “siamo cani in un canile”. Non parlava solo di sé e della propria sciagurata situazione processuale. Voleva dire, e a qualcuno lo aveva anche spiegato nel dettaglio, che la separatezza del luogo dalla società comportava anche il disinteresse delle istituzioni nei loro confronti.

Ecco, oggi, in piena campagna elettorale il disinteresse è massimo. Quanti sono gli onorevoli e i senatori che usano il loro diritto di visitare le carceri per andare a vedere cosa succede “in quel canile”? Praticamente nessuno. E intanto nel “canile” si muore. Nel 2022 ci sono stati 53 suicidi. Cioè 53 omicidi di stato.

Dopo l’appello e l’inizio del digiuno di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che tra l’altro si rivolge ai partiti perché inseriscano nel proprio programma di governo sia riforme sull’esecuzione penale e sull’ergastolo ostativo, ma anche amnistia e indulto, ci piace immaginare che ci sarà una gara a chi arriverà primo, tra sinistra, centrodestra e terzo polo. Primo a gridare che la situazione della giustizia e del carcere con i suoi suicidi è uno scandalo, e che risolvere questo scandalo è il primo punto di un programma di governo su cui il 25 settembre si chiederanno i voti ai cittadini. Così come vorremmo veder passare davanti ai nostri occhi la lunga fila di deputati e senatori che in questi giorni affollano gli ingressi delle carceri dove 53, dicasi cinquantatré (se non sono aumentati mentre scriviamo) esseri umani, cioè persone, donne e uomini, hanno detto semplicemente “basta”. Si sono uccisi. Gesto di ribellione nei confronti dello Stato che, dopo aver preso in consegna i loro corpi, non ha saputo averne cura, anzi ha pensato bene di sopprimerli. Così il problema non esiste. I rappresentanti delle istituzioni sono autorizzati dall’ordinamento penitenziario nato dalla riforma carceraria del 1975 a visitare gli istituti di pena senza particolari autorizzazioni, per verificare le condizioni di vita e di salute sia dei prigionieri che degli agenti di polizia penitenziaria. Sono autorizzati, ma in genere non lo fanno.

L’argomento non interessa, semplicemente. Anche coloro che si occupano di giustizia e che si appassionano al processo penale, ritengono il momento della condanna definitiva il punto terminale dell’amministrazione della giustizia. Tutto quel che succede dopo, e che è la conseguenza che separa la buona dalla cattiva giustizia, non li riguarda più. Il parlamentare in genere si risveglia di soprassalto solo quando capita che finisca in galera un suo amico o compagno di partito. Ecco allora che ci si ricorda di quell’articolo 57 dell’ordinamento, e si scopre che esiste la custodia cautelare come privazione della libertà personale prima del processo, e il sovraffollamento e l’invivibilità dell’istituzione totale. Ma pochissimi sono i deputati e i senatori che sanno, che hanno visto e toccato con mano che cosa è quel luogo che tiene prigionieri i corpi e distrugge le persone.

Quando - e sono ormai passati quasi vent’anni il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nelle lettere scritte prima di togliersi la vita diceva “siamo cani in un canile”, non parlava solo di sé e della propria sciagurata situazione processuale. Voleva dire, e a qualcuno lo aveva anche spiegato nel dettaglio, che la separatezza del luogo dalla società comportava anche il disinteresse delle istituzioni nei loro confronti. Non è un caso che, nei giorni in cui San Vittore era pieno di politici arrestati nelle inchieste di Tangentopoli, rinchiusi tutti nel medesimo raggio, lui, pur potendolo fare, aveva rifiutato di andare nel luogo “privilegiato”, meta delle visite di tanti parlamentari. Lui aveva voluto toccare con mano la realtà vera, vi si era immerso, aveva vissuto insieme a lui la sorte di quel ragazzo del Ghana che, in un processo celebrato senza interprete, aveva beccato dieci anni di condanna in dieci minuti.

I problemi di quel 1993 erano gli stessi di oggi. Il sovraffollamento che, come dice Rita Bernardini, vuol dire illegalità, e l’abbandono, il disinteresse. Eppure, a partire dagli operatori penitenziari, dal medico allo psicologo fino all’educatore, e poi i direttori e i giudici di sorveglianza, fino ad arrivare al neo-direttore del Dap Carlo Renoldi e alla ministra Marta Cartabia, quante persone per bene e di buon cuore ci sono a occuparsi della vita e della morte dei detenuti? Tante. Tante persone per bene e di buon cuore. Pure, non se ne esce. Quel che diceva Cagliari vent’anni fa è ancora lì, cani in un canile. E in 53, dall’inizio dell’anno, hanno detto basta. Il più giovane, 25anni, incensurato, ha usato il sacchetto di plastica, proprio come quell’antico presidente dell’Eni, poi si è rannicchiato sotto le coperte e ha chiuso gli occhi.

Dove sono i leader politici, di destra sinistra e centro, mentre si sta consumando questa strage? Dove sono i direttori dei grandi giornali e i famosi editorialisti? Ce ne fosse almeno uno pronto a dire che si vergogna perché ha lasciato sola Rita Bernardini con il suo digiuno. Che è pieno di rossore perché, pur sapendo che “una telefonata allunga la vita” non ha strillato perché un po’ di umanità non entri dalla porta principale delle carceri, perché un po’ di giustizia non entri nei tribunali, perché un grosso faro vada a illuminare questo mondo dove non si curano i malati psichici, non si aiutano i tossicodipendenti, non si contano gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi, oltre a quelli realizzati. E cavolo, deputati e senatori, uscite un attimo dai vari cerchi magici dove state sbavando per la candidatura e girate gli occhi a guardare il mondo. È mondo anche quello, sapete? E un giorno potrebbe togliervi il consenso, persino il voto.