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di Andrea Pasqualetto

Corriere della Sera, 21 ottobre 2023

“Sono certa che non si suicidò”. Il racconto: “Un testimone dice che fu aggredito e poi venne inscenata l’impiccagione. E ci sono molte stranezze”. “Sono convinta che mio fratello non si sia suicidato. Per varie ragioni: perché non è mai stato depresso, per la dinamica dei fatti e perché ci sono dei testimoni che raccontano un’altra verità e il loro racconto mi sembra molto credibile”. Marisa Dal Corso come Ilaria Cucchi. Lei, con l’avvocata Armida Decina che l’assiste, e la battaglia per il fratello Stefano, trovato senza vita il 12 ottobre del 2022 nel carcere di Oristano. La magistratura archiviò il caso per suicidio: si sarebbe impiccato nella sua cella. Marisa non ha mai creduto a questa fine, ha fatto così la sua inchiesta e alla fine ha ottenuto la riapertura del caso da parte della procura di Oristano che al momento indaga contro ignoti.

Qual è quest’altra verità?

“Il giorno prima di morire Stefano ha avuto una brutta discussione con alcuni operatori del carcere. Voleva difendere un detenuto al quale venivano negate le cure. Gli operatori hanno chiuso la porta e qualcuno ha sentito le sue urla”.

Questo il giorno prima però.

“Il giorno dopo hanno udito altri lamenti: aveva dei dolori e gli impedivano di parlare con lo psicologo. Voleva anche telefonare a me e a sua figlia ma gliel’hanno negato. Diceva “fatemi chiamare mia sorella e mia figlia”. Ma io non l’ho proprio sentito. E dopo l’hanno trovato morto”.

Cosa intende per operatori, agenti di polizia penitenziaria?

“Non voglio dire cosa intendo per operatori ma naturalmente si tratta di chi ha in mano le chiavi delle celle”.

Come arriva a questa ricostruzione e come può esserne sicura?

“Io ho una sola certezza, che mio fratello non si è suicidato. Ci arrivo attraverso due testimoni che non si conoscono fra di loro e che hanno sentito quelle urla. Secondo uno di questi Stefano sarebbe stato aggredito e poi avrebbero inscenato l’impiccagione. Mi ha detto di andare avanti, di chiedere l’autopsia. I racconti dei due coincidono. Ma al di là di queste testimonianze ci sono altre stranezze”.

Cioè?

“Sei mesi dopo la morte ho ricevuto un libro, che era indirizzato a lui. All’indice erano sottolineati e cerchiati due capitoli, La morte e La confessione. Io l’ho interpretato come un segnale: qualcuno mi spingeva a cercare la verità, come se ci fossero delle persone che potevano parlare, confessare qualcosa. E infatti poi abbiamo trovato i testimoni”.

Solo questo?

“No, c’è dell’altro. Il nostro medico legale ritiene che le lesioni sul collo siano compatibili con lo strangolamento. Il corpo sarebbe stato poi trovato con una gamba sul letto e una fuori, una posizione innaturale per un suicida. La grata della finestra dove si sarebbe appeso con un cappio di stoffa ricavata dal lenzuolo era un po’ troppo bassa. E il taglierino usato per il lenzuolo non l’abbiamo mai potuto vedere. Mi sembra che ci siano abbastanza stranezze per tornare a indagare sul caso, non crede?”.

Cosa chiedete agli inquirenti?

“Il primo passo è l’autopsia. Anche questa decisione presa a suo tempo di non cercare le cause della morte mi ha lasciato perplessa: come mai non è mai stata fatto questo esame?”.

Da quant’era in carcere suo fratello?

“Ha fatto quindici anni di detenzione, seppure intervallati, entrava e usciva per periodi anche lunghi. Era dentro soprattutto per cose di droga... è diventato tossicodipendente in carcere, a Rebibbia”.

Aveva dei sogni?

“Stefano si era preso diversi attestati, quello alberghiero, quello di giardiniere... Aveva dei progetti anche perché si stava avvicinando la libertà e non vedeva l’ora di aprirsi un ristorante, era entusiasta e guardava al futuro. Nelle ultime lettere diceva di non inviare più la posta al carcere di Oristano perché stava per tornare a Rebibbia, dove avrebbe scontato gli ultimi mesi. Pensi che due giorni prima della morte la psicologa aveva fatto una relazione nella quale l’aveva descritto reattivo, simpatico, scherzoso. Insomma, Stefano non voleva morire ma rinascere”.