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di Andrea Ossino

La Repubblica, 8 aprile 2023

“Non si è suicidato”. Nuovi inquietanti dettagli sulla fine del 42enne romano. Recapitato alla sorella un libro con le parole “morte” e “confessione” sottolineate. Il giallo del cappio, gli orari sballati e i testimoni si contraddicono.

Un libro, una coppia di finti fattorini Amazon. Due parole sottolineate a pagina 7. Prima “confessione”. Poi “morte”. Una serie di dettagli inquietanti. Sufficienti a riaprire il caso della morte di Stefano Dal Carso, detenuto trovato impiccato in cella nel carcere di Oristano a ottobre, e a farlo diventare un vero giallo.

La svolta è datata 8 marzo. Quel giorno, a distanza di cinque mesi dalla morte del 42enne del Tufello, dietro le sbarre per una tentata estorsione, due corrieri bussano alla porta della sorella della vittima. Si chiama Marisa e di lei i fattorini sembrano sapere tutto: conoscono il suo numero di telefono, sanno del citofono rotto, dicono di essere due corrieri di Amazon. Così non è. Non indossavano neanche la divisa. E, dopo aver bussato alla porta, si limitano a consegnare una scatola alla donna.

Un’epifania inattesa che, come detto, riapre il caso Dal Carso. Il libro dei finti fattorini era diretto proprio al detenuto scomparso a fine 2022. All’interno del volume firmato da una mistica austriaca (altro particolare inquietante) ecco una doppia sottolineatura. Forse un messaggio in codice: “La confessione” e “La morte”. Come se qualcuno volesse comunicare qualcosa.

Basterebbe raccontare questo episodio per capire che c’è qualcosa di strano intorno alla morte del 42enne romano. Ma in questa storia, subito catalogata dalla procura di Oristano come un suicidio in cella e chiusa senza nemmeno un’autopsia, emergono anche altri elementi oscuri. Dettagli che, se presi in considerazione, potrebbero finalmente permettere ai familiari della vittima e all’avvocato Armida Decina di chiarire ogni aspetto di questa vicenda.

Per decifrare questa storia occorre partire dall’inizio, da quando Stefano da Rebibbia è arrivato nella cella numero 8 del carcere di Oristano. Era il 4 ottobre, un paio di giorni prima dell’udienza di un processo che sta affrontando in Sardegna.

Una condanna per tentata estorsione, una vita trascorsa oltre i limiti e problemi di tossicodipendenza non hanno scalfito il morale del ragazzo. Con la psicologa del carcere “si mostra disponibile e collaborante”, spiega di non voler avere più niente a che fare con la droga e “nega attuali intenti autolesivi”, annota la dottoressa. Stefano dice di voler ricominciare una nuova vita anche alla ex compagna, quando la incontra assieme alla figlia di 7 anni. Lo ribadisce ancora in un paio di lettere inviate dal carcere pochi giorni prima di morire. Parla di progetti per il futuro, di lavoro e famiglia.

Insomma, nulla che potesse far pensare a un suicidio. Dal Carso aveva anche chiesto di essere trasferito definitivamente nel carcere di Oristano per stare vicino alla sua famiglia. Ma il 12 ottobre, il giorno prima di tornare a Roma, quando ormai mancavano pochi mesi alla sua scarcerazione, Stefano viene trovato morto. Si parla subito di suicidio. Un agente della penitenziaria racconta di averlo trovato impiccato alla finestra della cella. Il medico del carcere e firma una “diagnosi di morte per la rottura del collo”. Vengono sentiti infermieri, detenuti e agenti. “Non ci sono ipotesi alternative”, dice il pm. Stefano si è suicidato. È così evidente, per la procura, che non occorre neanche l’autopsia.

“Qui i fatti prendono una piega anomala ed incomprensibile”, sottolinea l’avvocato Decina. Perché, come riferisce un medico legale dell’università di Milano, è impossibile stabilire le cause della morte senza un’autopsia. Tanto meno accertare se si sia rotto “l’osso del collo”. C’è di più: le testimonianze non sono omogenee. Il medico dice di aver trovato Stefano alle 14,40 e di essere sicuro dell’orario perché avrebbe visto l’orologio prima di effettuare le manovre cardiache. L’agente che per primo ha visto il ragazzo privo di sensi invece si contraddice: prima fissa l’orario del ritrovamento alle 14,40, poi alle 14,50, sottolineando che 10 minuti prima è sicuro che Stefano fosse ancora vivo. La psicologa invece è “assolutamente certa che fossero le 14”. Anche sulla presenza di altri detenuti nelle celle vicine ci sono dei dubbi. I testimoni prima le ricordano vuote, per poi correggersi. C’era un altro carcerato. Ma è stato trasferito.

Poi c’è il cappio. Per il pm, Stefano lo avrebbe realizzato tagliando con una lama alcuni pezzi delle sue lenzuola. Stoffa mai mostrata all’avvocato della difesa: il tessuto appare diverso da quello delle lenzuola dell’unico letto della cella, perfettamente rifatto. Elementi da approfondire per chiarire come sia morto Dal Carso mentre era nelle mani dello Stato.