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di Micaela Cappellini

Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2024

La Cooperativa Giotto dal 1991 ha dato un impiego a oltre 2mila detenuti. La testimonianza: “Lavorare non mi pesa, anche dietro le sbarre si ha bisogno di soldi”. Per il New York Times il panettone della Pasticceria Giotto è il più buono d’Italia. Non il più giusto. Proprio il più buono. Dove viene preparato, però, i coltelli non hanno lame d’acciaio, ma solo di plastica. Perché i pasticcieri sono i detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. Dietro le sue sbarre nascono molti altri dolci, come le colombe di Pasqua per esempio, che per la rivista Forbes stanno di diritto tra le dieci migliori artigianali presenti sul mercato, accanto a quelle dimostri sacri come Cracco e Cannavacciuolo.

La Pasticceria Giotto è solo la punta di diamante, il progetto più noto che la cooperativa sociale Giotto ha contribuito ad avviare nel 2004. La prima pietra risale al1991, quando la legge Smuraglia e le agevolazioni per chi fa lavorare i detenuti erano ancora di là da venire, ma nel carcere di Padova prendeva già vita il primo corso di giardinaggio della cooperativa. Nei vari progetti in piedi oggi sono impiegati oltre novanta detenuti, “ma se facciamo i conti da quando abbiamo iniziato credo che abbiamo messo a lavorare più di duemila persone”, racconta Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto.

C’era già nel 1986, quando insieme ad alcuni amici laureati in Scienze agrarie e forestali ha deciso di fondare Giotto e impegnarsi per fare qualcosa di buono per la comunità. Le testimonianze dei detenuti sono il miglior biglietto da visita per capire quanto il lavoro sia un elemento importante della rieducazione di chi sconta la pena. “Ho cominciato a lavorare nel 2012 - racconta un ergastolano di Padova, il suo nome non importa perché quello che conta è la sua storia - prima in carcere, poi in semilibertà. Ho fatto lavori di call center, di back office, ora mi occupo di informatica. Sono impegnato 35 ore alla settimana.

Lavorare non mi pesa e non mi spaventa, e poi anche in carcere hai bisogno di soldi. Se non vuoi o non puoi chiederli alla famiglia, il modo migliore di procurarseli è lavorando”. Racconta invece un altro detenuto, in carcere dal 1997, che “in cella prima ho passato molto tempo a studiare, ho preso una seconda laurea e anche diversi master. Ma anche se sei in carcere, quando scegli un percorso di studi lo fai con l’obiettivo, alla fine, di trovare un lavoro.

Così, ora gestisco le prenotazioni di esami e visite mediche al Cup: la sfida più difficile è quando ti chiama un paziente oncologico, e devi cercare di fare del tuo meglio per trovargli l’esame che cerca nel minor tempo possibile”. Tra di loro c’è anche chi ha pagato il suo debito con la giustizia, è fuori dal 2017 ma ha scelto di continuare a lavorare con i suoi ex compagni di cella: “Sono un ex imprenditore che ha sbagliato - racconta - sono libero ma sono rimasto nella cooperativa. È un modo per sentirmi più libero”. Per trovare un senso. Call center, back office, ma non solo: in oltre 3o anni, di attività se ne sono susseguite parecchie.

Dalla manutenzione delle aree verdi dell’autostrada A4 Brescia-Padova alla cura dei parchi di Gardaland. Dalla gestione dei dati di Infocert alla raccolta differenziata per il gruppo Hera. Dalla pulizia delle strade del comune di Padova ai servizi per la gestione dei musei, come la Cappella degli Scrovegni. Le valigie Roncato e i gioielli Morellato. Il procedimento sempre lo stesso: la Cooperativa Giotto si aggiudica l’appalto e si occupa delle procedure per richiedere i detenuti da impiegare. Non è tutto semplice come sembra, però.

Il primo, grande scoglio, è la farraginosità del sistema: “È da otto anni che chiediamo 5o persone detenute da inserire al lavoro - dice Boscoletto - non mille, semplicemente 5o. Stiamo ancora aspettando”. Il secondo è la serietà del sistema: “Un conto è impegnare i detenuti, intrattenerli - continua - un conto è fare un percorso lavorativo vero, realmente professionalizzante”. Perché la verità è che sono pochi i detenuti che possono davvero essere inseriti nel mondo del lavoro: “Oltre al disagio sociale che li ha portati a commettere reati - spiega ancora Boscoletto - moltissimi detenuti sono portatori di handicap, oppure dipendenti da droghe, da alcol, da farmaci”.

Su una popolazione carceraria italiana di oltre 6imila persone, soltanto i tossicodipendenti sono 17mila. Il carcere è sempre più un luogo dove non si gestiscono criminali, ma marginalità e sofferenza. Chi deve cambiare, insomma, è proprio il sistema: “Daria Bignardi, autrice di “Ogni prigione è un’isola” lo spiega in maniera molto chiara - conclude Boscoletto - le mele marce non esistono, è il sistema che è strutturalmente guasto”.