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di Stefano Taglione

Il Tirreno, 3 dicembre 2022

Livorno: l’uomo aveva lavorato come inserviente, cuciniere, aiuto cuciniere, agricoltore e aiuto agricoltore. Quasi 10.000 euro di indennizzo. Dal luglio 2015 al settembre 2017 ha lavorato come scopino, inserviente di cucina, aiuto cuciniere, cuciniere, aiuto agricoltore e agricoltore fra le carceri delle Sughere e di Sanremo, in Liguria.

Peccato che le sue buste paga fossero ferme al ‘93 e che quindi, dopo la causa vinta dal suo avvocato Marco Tavernese contro il ministero della Giustizia, dovrà essere risarcito con 9.836,38 euro, con lo Stato condannato anche alle spese di giudizio, altri 1.780 euro. Il tribunale di Roma, con la giudice Giuseppina Vetritto, ha dato ragione a un ospite del carcere di via delle Macchie che rivendicava un guadagno equo e in linea con i parametri statali. Il detenuto - di cui Il Tirreno omette le generalità - è stato recluso nella casa circondariale di Sanremo dall’ottobre 2013 al novembre 2016, mentre nel dicembre successivo è stato trasferito a Livorno.

La normativa - Secondo una legge del 1993, in cui viene regolato il lavoro all’interno delle mura carcerarie, i detenuti devono essere pagati almeno due terzi rispetto ai parametri minimi contrattuali della stessa professione svolta fuori dai penitenziari. Uno scopino, quindi, deve ricevere due terzi della paga base che spetta in Italia per un addetto alle pulizie. Il confronto si basa sui contratti collettivi nazionali di categoria. Ma lo Stato, fino al settembre del 2017, ai reclusi non aveva mai adeguato lo stipendio rispetto agli aggiornamenti dei contratti nazionali, quindi chi svolgeva queste mansioni in tutti i penitenziari dello Stivale è stato retribuito in base ai due terzi dei corrispettivi validi appunto 29 anni fa. Una paga considerata misera quindi, al punto che in molti hanno deciso di fare causa allo Stato. Solo a Livorno, l’anno scorso, ci sono stati almeno altri due precedenti di persone che hanno ottenuto importanti risarcimenti dal ministero della Giustizia. La commissione ha poi aggiornato i parametri dall’ottobre del 2017, infatti da quel momento in poi tutto è stato regolarizzato.

La sentenza - In questo caso, il confronto, è stato fatto con i contratti nazionali di categoria di “Turismo e pubblici esercizi”, “Legno, piccole e medie imprese” ed “Edilizia e industria”. “Dal raffronto - spiega la giudice nella sentenza - si evince che per tutto l’arco temporale la mercede è stata quantificata sulla base delle retribuzioni indicate nella richiamata tabella (quella del 1993 ndr), senza essere mai aggiornata. Il ministero, quindi, non ha adempiuto all’obbligo di procedere agli aggiornamenti dei parametri retributivi utilizzati ai fini del calcolo della mercede, con la conseguenza che è fondata la pretesa del ricorrente di vedersi liquidare la retribuzione per il lavoro prestato sulla base delle percentuali individuate dalla commissione da applicarsi, però, sui minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria succedutisi nel tempo”.

“Pronuncia giusta” - “Si tratta dell’ennesima sentenza - spiega l’avvocato romano Marco Tavernese, che ha assistito la persona nella causa civile - che riconosce la giusta retribuzione per i detenuti lavoratori a fronte di un problema che ha riguardato dal ‘93 al settembre del 2017 la totalità della popolazione carceraria che ha svolto attività lavorative”.

I precedenti - Un anno fa un detenuto che aveva lavorato alle Sughere come spesino, porta vitto, aiuto cuciniere, scopino, addetto alle pulizie e assistente alla persona si era visto riconoscere dallo Stato 5.129,28 euro, principalmente perché il ministero della Giustizia non gli aveva versato il 25 per cento in più l’ora per i giorni festivi e gli straordinari. Altri 5.869,08 euro furono versati, sempre dall’Erario, a un altro ospite sia di via delle Macchie che di Gorgona che dal novembre 2016 al settembre 2017 aveva lavorato come mungitore, giardiniere e aiuto agricoltore.