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di Alessia Candito

La Repubblica, 2 luglio 2023

L’ex direttrice dell’Ucciardone e del Pagliarelli, Rita Barbera: “Il problema è sempre come si pone l’amministrazione”. “Noi direttori di carcere sappiamo chi all’interno dell’istituto ha la leadership e sappiamo che non possiamo riconoscerla”.

Direttrice dell’Ucciardone e del Pagliarelli fin dagli anni duri del maxiprocesso e quelli bui delle stragi di mafia, fra i primi a portare biblioteche, laboratori e progetti negli istituti che ha diretto, Rita Barbera il mondo del carcere lo conosce bene. “E proprio per questo non mi posso sbilanciare su quello che è successo al Pagliarelli durante il lockdown”.

Secondo quanto emerso dall’inchiesta della procura di Palermo sui boss del Villaggio Santa Rosalia, nei mesi più duri della pandemia i boss del quartiere, che all’interno dell’istituto contavano anche su dei detenuti lavoranti, avrebbero organizzato manifestazioni di protesta per ottenere un allentamento delle restrizioni. La questione - si legge nelle carte - sarebbe stata discussa nel corso di un incontro chiesto alla direttrice del carcere e subito ottenuto.

Lei cosa avrebbe fatto in questa situazione?

“Non si tratta di una dinamica anomala. È una pratica che i detenuti spesso hanno tentato di adottare, soprattutto durante le situazioni di emergenza. Il problema è sempre come si pone l’amministrazione”.

Nel caso specifico lo ha fatto in maniera corretta?

“Mi mancano troppi elementi per poter giudicare. Bisogna capire quale sia stato l’esito, se questi benefici sono stati ottenuti e da chi. All’epoca ero già in pensione, potevo solo pensare alle difficoltà che stavano attraversando i miei colleghi”.

Per sua esperienza, è particolarmente complicato gestire i detenuti di mafia?

“La situazione è molto cambiata. Una volta c’erano pressioni psicologiche, minacce più o meno velate. Adesso anche i detenuti di mafia preferiscono vie più formali: istanze dei loro avvocati, ricorsi, domande. Hanno capito che il gioco non vale la candela, che rischierebbero troppo. Chiaramente, questo non vuol dire che meccanismi subdoli, pressioni psicologiche, episodi di corruzione del personale non esistano più”.

Come mai non si riescono a scardinare?

“Si tratta di meccanismi di subcultura carceraria che di fatto replicano quelli dei quartieri da cui molti dei detenuti provengono. Anche per questo, inizialmente è stata immaginata una separazione fra i detenuti di mafia che stanno in Alta sicurezza e i “comuni”. Ma è sempre relativa”.

In che misura?

“In Alta sicurezza si va per reati di mafia, ma ci sono boss condannati su contestazioni diverse. In quel caso, la separazione non esiste”.

In questi casi, come si proteggono i detenuti comuni da possibili prevaricazioni e angherie?

“Tocca all’amministrazione penitenziaria trattare e far sentire tutti come eguali, disconoscere le posizioni di potere”.

Nei suoi anni da direttrice lei aveva un “metodo”?

“Dare a tutti le medesime possibilità, opportunità e prerogative: un colloquio, un incontro, l’accesso a un laboratorio. Nessuno si doveva sentire privilegiato. Ci perdevo le notti a pianificare tutto in modo che nessuno potesse anche solo percepire di aver avuto qualcosa in più o in meno degli altri. È anche una misura di sicurezza”.

Per quale motivo?

“Se tutti sanno di avere le stesse possibilità non hanno motivi di prendersela con il personale o con chi ritengono un privilegiato. Di base però molti in carcere non ci dovrebbero neanche entrare”.

Cosa intende?

“Chi finisce in carcere oggi? Di colletti bianchi ne ho visti pochi e mai in numero sufficiente da cambiare la composizione sociale degli istituti. Poi ci sono i mafiosi, certo. Ma doprattutto tantissimi che si macchiano di reati figli di marginalità, emarginazione sociale, disagio anche psichico. Per loro il carcere dovrebbe essere vietato”.

Cosa lo impedisce?

“Ci vogliono volontà politica e progettualità per creare percorsi alternativi, strutture di cura e accoglienza. Per evitare che i più deboli diventino vittime delle dinamiche del carcere, bisogna evitare che ci entrino”.

E i mafiosi?

“Per loro il carcere dovrebbe essere ancora più duro di quello che è oggi. In una situazione di sovraffollamento non si riesce veramente ad incidere su personalità così forti, così importanti, come può essere quella di un detenuto per mafia. Sono persone che nelle falle, nelle inadeguatezze, nell’incapacità del sistema trova il modo per ergersi a finti paladini o far valere la pressione psicologica che sono in grado di esercitare. E purtroppo non abbiamo plotoni di psicologi o di educatori in grado di mettere in discussione questa cultura, che è radicata non solo in carcere ma nel nostro territorio”.