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di Francesca Spasiano

Il Dubbio, 25 agosto 2023

“Ma chi se ne frega cosa vogliono loro… non dovrebbero nemmeno avere una difesa”; “pena esemplare, non c’è alcuna incertezza di colpevolezza. Purtroppo la giustizia ha una serie di paletti, e non si possono cambiare ad hoc…”; “dovrebbe essere lo Stato a garantire la certezza della pena… in questo caso sarà garantita dai detenuti”; “li lascerei in pasto agli altri carcerati”.

Quando mercoledì scorso si è diffusa la notizia che i sei ragazzi di Palermo arrestati per violenza sessuale di gruppo sarebbero stati trasferiti in altri istituti di pena per “motivi di sicurezza”, sul web è partito il solito tam tam. Un mix di indignazione e giubilo, da parte di chi ritiene intollerabile ogni sforzo per garantire l’incolumità dei “mostri” che hanno perso ogni diritto.

La richiesta di allontanare i sei è partita dalla direzione del carcere Pagliarelli di Palermo, ma sarebbero stati gli stessi ragazzi a chiedere il trasferimento dopo le minacce ricevute dagli altri reclusi. Ed è questo dettaglio, in particolare, ad infiammare gli utenti che commentano sui social: come si permettono quei balordi - sarebbe il ragionamento - di avvalersi della difesa? E perché lo Stato si prende pure il fastidio di assecondarli? Ci pensassero i detenuti a fare giustizia, così una buona volta tornano utili. E non deve passarsela meglio il settimo indagato, l’unico minorenne al momento dei fatti, che nel frattempo è tornato in carcere per nuovi elementi a suo carico dopo che il gip aveva “osato” revocare la misura cautelare.

Niente di nuovo, direte: la giustizia mediatica, che sistematicamente anticipa la giustizia nei tribunali, ci ha già abituati a gogne e linciaggi sulla piazza del web, soprattutto nel caso di reati così odiosi, come quello consumato a Palermo. Ma in questa terribile storia, che la cronaca ci ha raccontato in ogni dettaglio, ci sono almeno un paio di ingredienti che aggravano il quadro. Innanzitutto l’estremo clamore mediatico, citato dalla stessa direzione del carcere Pagliarelli per motivare il rischio di disordini all’interno dell’istituto.

Un odio virale, un voyeurismo di cui è prova la “caccia” alle immagini dello stupro partita su Telegram (con tanto di promessa di ricompensa), a cui segue la richiesta di una pena esemplare. La pena di morte, si direbbe, per mano di chi abita il carcere: una contraddizione niente male da parte di chi vorrebbe che “i criminali marcissero in galera” e ora eleva quegli stessi detenuti ad arbitri dell’etica criminale. Un po’ come quando si dice con una certa soddisfazione che chi tocca i bambini se la vedrà in cella con i “mafiosi”. La stessa sorte tocca a chi stupra: è la legge del contrappasso.

E guai a ricordare che esiste una legge vera, che non equipara la risposta punitiva al delitto. Era già successo con i fratelli Bianchi, che siccome avevano ucciso come le bestie, come le bestie dovevano morire: trasferiti anche loro. Ma garantire condizioni di detenzioni umane per chiunque non è “buonismo”: significa ricordare che ogni tentennamento sullo Stato di diritto, ogni cedimento ai nostri istinti peggiori, ci riporta dritti al livello più tribale della giustizia, in un inferno dove è lecito divorarsi l’uno con l’altro. Perché tanto la cosa non ci riguarda, a noi del mondo di fuori, che così avremo risparmiato tempo e denaro.