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di Irene Carmina

La Repubblica, 25 aprile 2024

“Gli fu diagnosticata una schizofrenia, quando invece il problema era la droga”. Le appare spesso in sogno, di notte. “Mamma, sei la vita mia, mi dice. E tu sei la mia, gli rispondo io”. Quel figlio impiccato con i lacci delle scarpe, in una cella del Pagliarelli, Lucia Agnello lo vede sempre. Samuele Bua aveva 29 anni quando si uccise. E ora che non c’è più, è rimasto per sempre bambino nelle foto incorniciate a casa. Non ha buttato via niente, Lucia. Il pigiama, i maglioni, gli orologi, i dischi di Samuele: ogni cosa è al suo posto. Come in un museo dei ricordi, tutto è fermo a quel 4 novembre di sei anni fa. Anche il dolore: “Non si supera mai, ci si convive”. Trema la voce di Lucia Agnello, si spezza nel pianto. “Me lo hanno ucciso”, singhiozza. Lucia ha preso parte al sit-in sull’emergenza carceri organizzato davanti al Tribunale di Palermo.

Come fa a esserne sicura?

“Sei anni prima di andare in carcere, Samuele aveva già provato a tagliarsi le vene, in preda a una crisi di astinenza dalla droga. Nei sei mesi in cui era al Pagliarelli, dal maggio al novembre del 2018, aveva tentato altre volte di farla finita bevendo detersivo e ferendosi le braccia. Come fanno i medici a dire che andava tutto bene e che era tranquillo? Eppure il tribunale li ha scagionati. Ma ci sono altre cose che non tornano”.

Quali?

“I lacci delle scarpe. Li avrebbe usati come cappio. Ma in carcere Samuele stava in ciabatte: non aveva scarpe. Gliele comprai io e mi vietarono di dargliele. Un poliziotto mi disse che mio figlio doveva comprarle dentro il carcere. Non mi convince neppure l’orario della morte, le 10. Sono convinta che sia morto prima, durante il cambio di guardia notturno. Ma questa storia è partita male dall’inizio”.

Perché?

“Perché gli fu diagnosticata una schizofrenia, quando invece il problema di Samuele era un altro: la droga. Prima che si rovinasse con questa porcheria, stava bene. Era solare, socievole, giocava a pallone. Andava curato diversamente, non come un malato psichiatrico. Ai ragazzi dico: state attenti alle droghe perché entrano nelle famiglie e le distruggono”

Quando è entrata la droga nella vita di suo figlio?

“Intorno ai vent’anni, per le cattive compagnie. I soldi non gli bastavano mai e un giorno successe un episodio che non mi perdonerò mai”.

Che cosa accadde?

“Mise le mani addosso a me e a sua sorella. Denunciarlo fu l’errore più grande della mia vita, perché fu rinchiuso in carcere e lì dentro morì, abbandonato da tutti e rifiutato dalla società”.

Lei, però, non lo abbandonò...

“Lo andavo a trovare sempre. Samuele mi perdonò: mi amava più di ogni cosa. Ma il carcere è stato il suo inferno”.

Un inferno. È così per tutti i detenuti?

“I detenuti sono gli scarti della società, che li considera trasparenti. I ragazzi vengono buttati dentro una cella, e chi s’è visto s’è visto. Samuele andava sorvegliato”.

Possibile che nessuno lo sorvegliasse?

“Se era davvero schizofrenico e aveva già tentato il suicidio, come hanno potuto lasciarlo da solo, anche se a chiederlo era stato lui? E per giunta senza controllarlo?”.

Oggi come trova la forza di andare avanti?

“Me la dà Dio. Due anni fa ho perso un altro figlio, Francesco Paolo. Il 18 dicembre 2021 è uscito dalla residenza per disabili “Suor Rosina La Grua onlus” di Castelbuono: si era scoperto che gli ospiti venivano torturati e rinchiusi per ore al buio senza cibo né acqua. Era denutrito, non parlava per una malformazione al labbro. Dopo 18 giorni è morto”.