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di Roberto Prinzi


Left, 3 aprile 2020

 

Dall'Iran all'Egitto, dal Bahrain alla Libia, dall'Arabia Saudita a Israele si leva il grido disperato dei detenuti alla mercé del coronavirus: Amnistia per tutti. D all'Iran alla Libia passando per il Libano e l'Egitto, il Covid-19 ha unito coloro a cui spesso non si dà voce: i carcerati.

Rinchiusi in celle sovraffollate dove il rischio contagio è alto anche a causa di condizioni igieniche inaccettabili, i detenuti sono insorti chiedendo più o meno ovunque la stessa cosa: amnistia per non essere contagiati. In Bahrain, la monarchia sunnita di re Hamad ha provato a stroncare sul nascere possibili proteste liberando a metà marzo "una significativa porzione" della sua popolazione carceraria (circa 1.700 persone).

Ma non è tutto oro quello che luccica: l'Istituto del Bahrain per i diritti e la democrazia (Bird) ha infatti denunciato come nella lista dei rilasciati manchino "importanti leader politici e difensori dei diritti umani" e come l'intero processo sia stato poco trasparente. Appelli per il rilascio dei prigionieri sono stati fatti da organizzazioni per i diritti umani anche negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita, ma sono per ora caduti nel vuoto.

Ma se in questi Paesi del Golfo gli effetti letali del coronavirus sono stati al momento contenuti, diverso è il caso dell'Iran che fino a domenica contava ufficialmente più di 2.600 vittime e oltre 38mila contagiati. La situazione è drammatica nella Repubblica islamica al punto che le autorità hanno esteso via via il numero dei detenuti da rilasciare: sono al momento 100mila, 15mila in più rispetto a metà marzo.

Tra questi ci sono anche i prigionieri politici, inclusi molto probabilmente dopo le pressioni delle Nazioni Unite. Teheran, piegata dalla crisi economica dovuta soprattutto alle sanzioni americane, ha capito intelligentemente prima di ogni altro Paese al mondo il pericolo della diffusione del virus nelle carceri: un problema sì sanitario, ma che può trasformarsi in breve tempo in un serio grattacapo politico. E così è intervenuta seguendo il famoso detto che prevenire è meglio che curare. E i risultati pare le stiano dando ragione. Basta guardare a cosa è accaduto in Libano dove proteste violente hanno avuto luogo a metà marzo nelle carceri di Roumieh (a nord est di Beirut) e Zahle (a est del Paese). In due filmati circolati in rete alcuni prigionieri insanguinati mostrano larghe ferite sul corpo accusando i secondini di aver premuto il grilletto.

"Guardate cosa ci fa lo Stato" grida uno degli uomini. Un'accusa grave, ma che sembrerebbe essere fondata: una fonte anonima della prigione intervistata da al-Jazeera ha ammesso che due detenuti sono stati colpiti da pallottole ricoperte di gomma. "C'è stata una grande rivolta che ha portato la rottura di porte e la distruzione di attrezzature - ha detto. A quel punto le forze di sicurezza sono intervenute". Si sbaglia a credere che dietro le proteste in Libano, come altrove, ci siano solo paure per la diffusione del Covid-19.

Il virus rappresenta solo il punto di rottura di una situazione da anni insostenibile: è l'umanità invisibile a cui è tolta la voce qui e in gran parte del mondo ed etichettata per lo più come "problema di sicurezza" a reclamare il suo diritto ad essere trattata con dignità. Ecco perché liberarne alcuni - la Libia ne ha rilasciati 466 domenica - oltre a limitare i contagi, può aiutare anche a stemperare le tensioni, mai come in questa fase emergenziale del tutto superflue. Ma non tutti i governi dell'area sono così avveduti.

Ne sanno qualcosa i detenuti egiziani, 60mila dei quali sono in cella per motivi politici. L'arrivo dell'epidemia potrebbe avere effetti devastanti visto l'affollamento carcerario e le scarse condizioni igieniche. L'attivista dei diritti umani Nasser Amin non ne ha dubbi e, intervistato dal portale al-Monitor, ha proposto il rilascio di "chi è detenuto in attesa del processo, di chi è sotto indagine, di chi non è incriminato e degli anziani".

Dopo tutto l'indicazione di Amin ha una base legale: l'articolo 201 del codice penale egiziano prevede in particolari circostanze la liberazione dei detenuti in cambio di altre misure. Ma dalle carceri sono usciti finora solo 15 oppositori del golpista al-Sisi. Il regime non conosce al momento alcuna clemenza. Anzi, dal 9 al 19 marzo, ha sospeso pure le visite dei familiari dei carcerati. Per il Cairo, in fondo, si tratta di criminali, spesso accusati di terrorismo così da non destare proteste nella comunità internazionale.

"Terroristi" a cui non di rado è negato il trattamento medico. Un punto quest'ultimo non casuale. "Il regime usa la negligenza sanitaria come mezzo per uccidere perché sa che non comporta conseguenze", ha scritto Rania Mostafa su Middle East Monitor. È quanto accaduto lo scorso anno all'ex presidente islamista Mohammad Morsi, un caso niente affatto isolato: le vittime di quella che Mostafa chiama "negligenza medica" dal 3 luglio 2013 (data del golpe di al-Sisi) all'anno scorso sono state 826.

Sono una bomba pronta ad esplodere anche le carceri israeliane dove sono rinchiusi 6mila prigionieri palestinesi e dove già si sono registrati alcuni casi di positività al coronavirus. Le prigioni in Palestina sono storicamente un luogo centrale del conflitto contro le politiche d'occupazione israeliane, rappresentando un laboratorio politico importante.

A differenza di quanto accade nel resto del mondo, la questione dei prigionieri è una causa molto sentita da parte della popolazione locale: non c'è famiglia qui che non abbia un caro detenuto e in carcere ci va poi il muqawim, il "resistente" colui che ha lottato in difesa della propria terra e della libertà del suo popolo. Senza dimenticare che, soprattutto negli ultimi anni, le prigioni hanno rappresentato l'unico luogo dove poter ricostruire l'unità politica perduta.

Ecco quindi perché l'arrivo del coronavirus è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: i detenuti hanno protestato rifiutando i pasti, hanno chiuso alcune sezioni delle carceri, accusando le autorità carcerarie israeliane di aver utilizzato l'emergenza epidemica per privarne di altri diritti basilari.

I detenuti minacciano uno sciopero della fame qualora la situazione non dovesse cambiare. Preoccupano in particolare le condizioni di 700 detenuti ammalati, 170 dei quali sono in gravi condizioni e necessitano di immediate cure. In una lettera pubblicata la scorsa settimana, 35 di loro hanno domandato: "Che succede se il Covid si diffonderà nelle carceri? Quali misure verranno prese in modo umano dal servizio carcerario israeliano?". Ma Israele, in lockdown per un virus non più minaccia ma reale, non ascolta. Dopotutto trattasi di "terroristi".