di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 29 novembre 2024
L’uomo, gravemente malato, vive un dramma sanitario. Ma nonostante l’incompatibilità con il regime penitenziario rimane ristretto. L’avvocato denuncia: “Trattamento inumano e degradante”. All’interno del nostro, sempre più disastrato, sistema penitenziario italiano, emerge un caso che solleva nuovamente interrogativi sulla tutela della salute dei detenuti: Umberto Lorusso, 46 anni, condannato a trent’anni di reclusione per un omicidio commesso nell’ambito di una faida mafiosa in Puglia, si trova intrappolato in una realtà che si scontra con le sue gravi condizioni di salute.
Lorusso, detenuto presso la Casa di Reclusione di Parma, soffre di paraplegia, vescica neurologica e altre complicazioni derivanti da una lesione midollare causata da un colpo d’arma da fuoco. La sua quotidianità è scandita dalla necessità di assistenza costante per gestire un catetere e le difficoltà motorie, ma l’istituto penitenziario, come confermato da più relazioni sanitarie acquisite dal suo avvocato Giovanni Voltarella del foro di Bologna, non è in grado di garantire i trattamenti adeguati.
Nonostante il carcere parmense sia dotato di una sezione sanitaria, come è noto da anni, la struttura non dispone delle risorse necessarie per un trattamento riabilitativo intensivo. Le condizioni del detenuto richiederebbero cicli di fisioterapia frequenti e assistenza medica specializzata, servizi che, secondo le stesse note del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e della direzione sanitaria del carcere, non possono essere garantiti.
L’assenza di cure adeguate ha già causato a Lorusso infezioni urinarie ricorrenti, perdita significativa di peso e un peggioramento generale delle sue condizioni. Tant’è vero che era stato ricoverato urgentemente in ospedale, per poi rientrare nuovamente appena scongiurata la morte. Tra le problematiche più gravi segnalate dall’avvocato difensore emerge la gestione della vescica neurologica, una condizione che impedisce al detenuto di svuotare correttamente la vescica. Durante la detenzione, Lorusso è stato costretto a urinare raramente, solo due volte a settimana tramite clisteri, con tempi estremamente lunghi e in condizioni precarie. Questa situazione non solo gli causa un peggioramento della qualità di vita, ma lo espone a rischi seri, come infezioni del tratto urinario che possono evolvere in complicazioni potenzialmente fatali.
L’ammissione dell’incompatibilità - D’altronde, in un’ordinanza del marzo 2024, il magistrato di sorveglianza di Bologna ha riconosciuto l’incompatibilità relativa tra lo stato di salute del detenuto e il regime carcerario. Il magistrato ha sottolineato che, senza trattamenti riabilitativi intensivi adeguati, le condizioni di salute di Lorusso sarebbero inevitabilmente peggiorate, configurando una situazione contraria al senso di umanità. Per questo motivo, Lorusso è stato temporaneamente trasferito in una struttura sanitaria esterna, che però ha potuto ospitarlo solo per 45 giorni, lasciando irrisolta la questione di fondo.
L’avvocato di Umberto Lorusso ha presentato diverse istanze al magistrato di sorveglianza per richiedere il trasferimento definitivo del detenuto in una struttura medica adeguata. L’ultima richiesta, avanzata nel settembre 2024, proponeva il ricovero presso la clinica Riabilia a Bari, una struttura che aveva confermato la disponibilità a ospitare il paziente per 60 giorni al fine di garantire le terapie fisioterapiche intensive necessarie.
La difesa ha evidenziato la cronica carenza di cure adeguate all’interno della Casa di Reclusione di Parma, documentando che i trattamenti fisioterapici presso il carcere vengono somministrati in modo sporadico e insufficiente, con gravi conseguenze per la salute di Lorusso. Inoltre, l’avvocato ha sottolineato la perdita di oltre 15 kg da parte del detenuto e il peggioramento delle sue condizioni generali, culminate in una recente urosepsi che ha richiesto un ricovero urgente.
Nonostante la clinica Riabilia avesse fornito garanzie sulle terapie, il magistrato di sorveglianza ha rigettato l’istanza con motivazioni che hanno sollevato perplessità. Il rigetto si basava su due punti principali: la presunta stabilità delle condizioni di salute di Lorusso e il timore che un rientro in Puglia potesse favorire il suo contatto con ambienti criminali, data la sua pericolosità sociale.
Il magistrato ha inoltre ritenuto sufficiente la possibilità di proseguire i trattamenti in autonomia all’interno del carcere, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa e dalla consulenza medica di parte, che aveva dichiarato incompatibile il regime detentivo con le condizioni cliniche del detenuto.
Eppure, l’assistenza sanitaria offerta nel carcere è inadeguata per un paziente con una lesione midollare inveterata, che richiede cure quotidiane e un ambiente sanitario controllato per evitare infezioni. Così come, il deterioramento fisico del detenuto, aggravato dalle condizioni igieniche carcerarie, rischia di portare a conseguenze irreversibili, come nuove infezioni e lesioni da decubito. “Ogni giorno che passa in queste condizioni rappresenta una violazione del diritto alla salute e alla dignità umana”, sostiene amaramente a Il Dubbio l’avvocato Voltarella.
Condanna della CEDU in casi simili - Questo caso non è isolato. A gennaio scorso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti verso un detenuto affetto da fibromialgia in un altro istituto. L’Italia, più volte sollecitata a migliorare le condizioni sanitarie nelle carceri, sembra ancora lontana dall’assicurare standard di assistenza compatibili con i diritti umani fondamentali. La vicenda di Lorusso pone anche una questione di equilibrio tra esigenze di sicurezza e tutela della salute.
Sebbene la pericolosità sociale del detenuto, ritenuto affiliato a un clan mafioso, abbia spesso motivato il rigetto delle richieste di trasferimento, la sua condizione sanitaria appare incompatibile con qualsiasi regime detentivo standard. “Nel caso dell’ennesimo rigetto, verrebbe violato il diritto alla salute e alla cura di un soggetto che, a causa della mancata somministrazione della terapia di cui necessita, ha subito un trattamento detentivo inumano e degradante”, scrive l’avvocato nell’istanza. Purtroppo rigettata.