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di Sandro Cappelletto

Avvenire, 22 dicembre 2023

Parla Gabriella Corsaro, la direttrice del Coro maschile del carcere di Parma: 20 elementi che fanno parte di un progetto di inclusione che ha avviato la collaborazione con il Teatro Regio. Alla fine di ogni nostro incontro, sento di avere vissuto tre ore di felicità; di aver fatto, in semplicità, una cosa bella. Ai miei coristi piace venire considerati anzitutto come persone. La nostra evasione si chiama bellezza”.

Gabriella Corsaro è la direttrice del Coro maschile attivo nelle sezioni di alta e media sicurezza del Carcere di Parma. L’attività corale è una realtà diffusa in numerose carceri italiane: il Coro Papageno della Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna è stato avviato nel 2011 per volontà del maestro Claudio Abbado.

Quale è stata la principale difficoltà, all’avvio del progetto?

Oltre alle difficoltà logistiche e di orario, che sono state risolte con la collaborazione della direzione del carcere e della polizia penitenziaria, per persuadere i detenuti a partecipare è stato decisivo dare loro l’impressione che il progetto non è effimero. Che dura nel tempo ed è finalizzato ad appuntamenti precisi. Solo il Covid ci aveva fermato, ora l’attività è ripresa.

Come si è sviluppata la collaborazione con il Teatro Regio di Parma?

Il teatro ha un suo codice etico, che dedica particolare attenzione al tema dell’inclusione. Prepariamo le parti corali delle opere che figurano nel cartellone del teatro e l’aspetto performativo consiste in questo: nell’auditorium del carcere viene allestito uno spettacolo con la presenza di un attore che racconta la vicenda di quell’opera con i necessari raccordi narrativi. Noi interveniamo con il nostro coro - formato attualmente da circa 20 elementi - al quale si aggiungono dei coristi professionisti. L’impegno di questi giorni è per Il barbiere di Siviglia, che debutterà il 12 gennaio. Alcuni dei nostri coristi, in regime di semilibertà, assistono anche alle rappresentazioni del teatro.

Lei, Gabriella Corsaro, ha dovuto superare anche una personale difficoltà emotiva…

Sono familiare di una vittima innocente di mafia. La mafia uccise un mio zio, aveva 46 anni e tre figli. Nel carcere di Parma non mancano i detenuti colpevoli di delitti di mafia. Accettare questa realtà ha significato per la mia famiglia compiere un percorso doloroso, ma fertile.

Quanti detenuti conoscono o sanno leggere la musica?

Quasi nessuno. È un coro dove sono presenti diverse etnie, alcuni carcerati sono analfabeti o provengono da nazioni che non adottano il nostro sistema di notazione musicale. Imparano ad orecchio. In genere, il livello di informazione culturale è molto semplice e dunque coinvolgerli nella trama di un’opera, comprendere le parole del libretto, approfondire i caratteri dei diversi personaggi, è una sfida professionale altissima. Non bisogna mai dare l’impressione che il risultato musicale a cui si tende sia per loro inarrivabile.

Come si regola per correggere i loro errori, mentre cantano?

In un coro normale l’errore spesso si supera con una battuta, ma per questo coro sbagliare è un problema delicato. L’ego di ciascuno può essere ferito e questa ferita riflettersi nelle loro relazioni. Lo sbaglio non deve diventare uno stigma. A volte cantando la faccia e la bocca assumono delle posizioni che possono apparire buffe, ridicole. Anche questo è un punto da sciogliere, ai detenuti non piace apparire ridicoli.

È difficile mantenere la disciplina professionale richiesta a un coro?

I detenuti condannati a pene molto lunghe, che hanno interiorizzato la disciplina del carcere, sono del tutto professionali. In chi deve scontare pene più brevi, prevale a volte un’attitudine frizzante. Ma il risultato si raggiunge sempre. Guardare negli occhi e avere pazienza è la regola che vale per tutti i cori.

Cantare, e insegnare a cantare, spesso comporta un approccio fisico, per migliorare la postura, per insegnare la corretta respirazione. Come risolve questo aspetto?

Ogni volta chiedo: “Mi autorizzi a toccarti?”. Quando tocca a me di venire toccata, ad esempio per far capire la corretta posizione del diaframma, lo fanno come se fossi di cristallo.