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di Fabio Ruta*

vita.it, 26 aprile 2022

È nato nel 2014 il premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute. Si chiama “Parole liberate: oltre il muro del carcere” ed ora è anche un’opera discografica. Michele De Lucia: “Proponiamo ai detenuti non solo di scrivere una poesia, ma di essere co-autori di una canzone, perché la lirica vincitrice viene affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Il carcere ha senso se serve a preparare il dopo, altrimenti è solo una palestra del crimine”.

“Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si vede il livello di civiltà di una nazione”, suggeriva Voltaire. E la situazione nelle carceri italiane, come ricordato in un articolo del 5 gennaio 2022 di Luca Cereda su “Vita” è assai allarmante. A situazioni croniche come quelle del sovraffollamento si sono aggiunte le restrizioni dovute alla pandemia, complicando un quadro già di per sé drammatico. Ben vengano dunque tutte quelle iniziative volte creare spazi di comunicazione e speranza che vadano oltre le mura delle carceri e superino una visione meramente punitiva della pena, aprendo le carceri ad un ruolo educativo, di promozione culturale, artistica e di riscatto sociale. Quella che segue è una intervista a Michele De Lucia, tra i promotori di “Parole liberate: oltre il muro del carcere”, che ora è divenuto anche un’opera discografica.

Come e quando nasce l’idea del Progetto - Premio “Parole liberate: oltre il muro del carcere”?

Parole liberate è un premio per poeti della canzone riservato alle persone detenute nelle carceri italiane, che ho fondato nel 2014 insieme all’autore Duccio Parodi e all’attore Riccardo Monopoli. Ci eravamo conosciuti l’anno prima nel carcere di Marassi, dove portavano in scena, per i detenuti, lo spettacolo “Se fossi Fabrizio”. Io all’epoca ero tesoriere di Radicali italiani. Abbiamo scoperto di avere la stessa sensibilità e la stessa dannata voglia di fare qualcosa. Dopo qualche tempo mi hanno ricontattato, e avevano già chiara quella che sarebbe stata la formula: proporre ai detenuti non solo di scrivere una poesia, ma di essere co-autori di una canzone, perché la lirica vincitrice viene affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Nel giro di qualche settimana abbiamo dato il via all’iniziativa, facendolo crescere come potevamo, da brave formichine, cercando di fare il classico millimetro al giorno nella direzione giusta. Il messaggio è: una persona detenuta non è solo il suo reato, non si esaurisce nel suo reato. Deve avere la possibilità di riscattarsi, di ricostruirsi, di tirare fuori altro. Oggi chi ha sbagliato è condannato alla pena aggiuntiva dell’emarginazione a vita. Non può, non deve essere così.

Una persona detenuta non è solo il suo reato, non si esaurisce nel suo reato. Deve avere la possibilità di riscattarsi, di ricostruirsi, di tirare fuori altro. Oggi chi ha sbagliato è condannato alla pena aggiuntiva dell’emarginazione a vita. Non può, non deve essere così.

Ora il progetto si arricchisce di un nuovo capitolo: un disco realizzato con testi di persone detenute e musicate da artisti noti, il cui progetto grafico è stato curato da Oliviero Toscani. Può raccontarci questa esperienza?

È un disco un po’ figlio del lockdown: nel 2020 dovevamo lanciare una nuova edizione di Parole liberate, ma la situazione era incerta e sarebbe stato temerario procedere. Allora abbiamo approfittato dello stop forzato per fare un bilancio di quanto avevamo fatto finora. Ci siamo resi conto che, al di là delle composizioni premiate nelle varie edizioni, c’era molto materiale di qualità che non meritava di restare chiuso in un cassetto.

È possibile immaginare oggi una esperienza carceraria che superi la funzione meramente punitiva per concretizzare quella funzione rieducativa di cui parla l’articolo 27 della Costituzione?

Non è solo possibile: è doveroso e indispensabile, altrimenti il sistema penitenziario non ha alcun senso e il carcere si esaurisce in una discarica sociale, in un ghetto popolato da ombre di cui la società ignora volentieri l’esistenza.

Ritiene che sia importante il ruolo degli educatori e dei pedagogisti in ambito penitenziario?

Il ruolo degli educatori e dei pedagogisti è fondamentale: è solo grazie al loro lavoro se il carcere non è esclusivamente un parcheggio in cui il tempo passa inutilmente, in attesa di scontare la pena o di morire. Sono loro che portano materialmente i bandi di iniziative come la nostra ai detenuti e li invitano a partecipare. Più in generale, il carcere ha senso se serve a preparare il dopo, altrimenti è solo una palestra del crimine, in cui entri magari per un reato minore o in forza di leggi criminogene - pensiamo, ad esempio, alle leggi sulla droga e sull’immigrazione - e da cui esci peggio di come sei entrato e senza nessuna prospettiva.