sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Susanna Turco

L’Espresso, 5 febbraio 2023

Dal caso Cospito al fantasma del Terzo polo. Dalle carte riservate usate da Fratelli d’Italia alla struttura che guida il dicastero. Con gli uomini di Matteo Renzi e di Carlo Calenda. E le donne. Mentre Giorgia Meloni deve decidere da che parte stare. Così via Arenula diventa il crocevia di tutte le trame.

La penultima volta in cui Giorgia Meloni aveva dovuto garantire che fosse tutto a posto, ci aveva dovuto mettere la faccia, la foto e il messaggio di rassicurazione. Era il 26 gennaio, meno di dieci giorni fa. La premier aveva dovuto celebrare la scoperta dell’acqua calda con un vertice a Palazzo Chigi in cui diceva: esiste un programma sulla giustizia ed esiste il ministro che gode della “piena fiducia” per attuarlo, è Carlo Nordio, eccolo qui accanto a me. Era prima del 31 gennaio, altra data fatidica. Quella della controffensiva - diventata un mezzo boomerang - sul caso di Alfredo Cospito, il primo anarchico detenuto in regime di 41 bis, in sciopero della fame da oltre cento giorni per abolire il carcere duro. Alle sue richieste, quel giorno, il governo e il Guardasigilli rispondevano un no della fermezza e della mascella dura. Con tanto di conferenza stampa della trimurti ministeriale Nordio, Matteo Piantedosi, Antonio Tajani.

Peccato che, proprio negli stessi minuti in cui Nordio estraeva il suo latinorum da tribunale e convegnistica, parlando di redenzione, espiazione e addirittura invocando l’Ecclesiaste solo per significare che sul regime di carcere duro lui sempre garantista aveva temporaneamente cambiato opinione (“è una vecchia questione filosofica se siano i tempi che fanno gli uomini o siano gli uomini che fanno i tempi, a questo mondo come insegna l’Ecclesiaste non c’è nulla di eterno”), ecco, proprio negli stessi minuti il reggente di fatto di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, gli rovinava tutta la scena.

Rivelando ai quattro venti, in piena seduta della Camera, i dialoghi di intercettazioni riservatissime, contenute in una informativa proveniente proprio dal ministero di via Arenula, che gli erano state svelate dall’amico, coinquilino, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, Andrea Delmastro (il quale nega trattarsi di materiale riservato). In questo modo, pur di mettere in mezzo il Pd nell’offensiva mediatica post gaffe sulle intercettazioni (“i mafiosi non parlano al telefono”, aveva detto Nordio due giorni prima dell’arresto di Messina Denaro), Donzelli ha fatto entrare, per la prima volta, nei resoconti ufficiali del Parlamento, dialoghi tra detenuti coperti da segreto (sul punto, la Procura di Roma ha aperto un fascicolo).

E così, anche stavolta e nonostante tutte le cautele, il ministero della Giustizia si conferma il posto più fragile e delicato dell’intero governo. La casella che balla, il punto di frattura possibile che è nello stesso tempo il punto del massimo accrocco, il centro del prisma su cui si regge l’architettura del governo Meloni. Che è fatta da un asse principale, e da un asse di ricambio. Come si vide già il primo giorno della legislatura, quando per eleggere Ignazio La Russa presidente del Senato si materializzò una maggioranza alternativa, nella quale i voti di Forza Italia erano sostituiti da altri apporti trasversali. Il fantasma del Terzo Polo, formato dall’asse Renzi-Calenda, pronto a intervenire in caso di crisi interna al centrodestra. Una vena aurea sotterranea che si ritrova nella stessa architettura del ministero.

Per esemplificarla, più che da Nordio, bisogna partire da quello che taluno chiama il caso delle due Giusi. Giuseppa Lara, detta Giusi, Bartolozzi, vice capa di gabinetto, e Giuseppina, detta Gippy, Rubinetti, capa della segreteria del ministro: quasi lo stesso nome di battesimo ma scarsa sintonia. Anzi, chi frequenta i corridoi di via Arenula sostiene che spesso e volentieri le due bisticcino. Eppure qualche punto in comune potrebbero trovarlo, e non solo perché entrambe hanno sostenuto i sì ai referendum sulla giustizia nel giugno 2022. Giusi Bartolozzi, magistrata e già parlamentare di Forza Italia, la porta sbattuta nel 2021 in seguito a un voto in dissenso sulla riforma Cartabia che le era costata il posto in commissione Giustizia e l’ira di Marta Fascina, molto vicina a Enrico Costa, ex responsabile Giustizia di FI, passato a Carlo Calenda, e compagna di Gaetano Armao, già vice di Musumeci alla Regione Siciliana e alle ultime elezioni nell’isola candidato proprio con Azione. Un’altra nuance di centrismo è quella rappresentata da Gippy Rubinetti: avvocata nello studio Michele Vietti, nel cda della fondazione Einaudi assieme, ad esempio, all’ex parlamentare renziano Andrea Marcucci, vicina a Luca Palamara, l’ex magistrato che trattava le nomine con il renzianissimo Luca Lotti e con Cosimo Ferri, già sottosegretario alla Giustizia e deputato di Italia viva, referente dell’ex rottamatore negli ambienti della magistratura.

Ce ne sarebbe già abbastanza per capire quanto il terzo polo si sia allargato, e quanto siano agganciate alla realtà mosse come l’elezione del renziano Ernesto Carbone al Csm, o come l’esultanza di Matteo Renzi per l’elezione alla vicepresidenza di Fabio Pinelli, primo leghista a ricoprire quel ruolo (“serio, autorevole, credibile. Complimenti e buon lavoro”, il tweet con cui Matteo Renzi ha salutato la cosa) e, in generale, le molteplici aperture a una riforma della giustizia. “Io e tutto il Terzo polo stiamo dalla parte di Nordio e lo dimostreremo con le nostre proposte”, ha detto in sintesi proprio Costa, che è stato poi il primo (e più duro, a parte il Pd) a chiedere le dimissioni di Donzelli dopo le rivelazioni su Cospito.

Ma c’è dell’altro. Alla poltronissima del Dap, quella che fece inciampare da Guardasigilli Alfonso Bonafede, è stato nominato il magistrato napoletano Giovanni Russo, che è fratello di Paolo Russo, deputato di lungo corso di Forza Italia e anche lui ora entrato in Azione come responsabile per il Sud, con una ampiezza di manovra archeo-forzista che, per dire, in Campania va dall’essere sponsor di Mara Carfagna all’essere amico di Nicola Cosentino.

Insomma va a finire che Nordio è circondato da renziani e da calendiani spesso ex forzisti. E questo spiega l’attivismo con il quale la Lega e Forza Italia si dedichino invece a smontare l’attività di Carlo Nordio, dagli attacchi sulle intercettazioni alla cortese freddezza che proviene dal ministero dell’Interno guidato da Matteo Piantedosi, fino alla completa riscrittura del decreto rave operata in penombra da una avvocata abile come Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato.

C’è da domandarsi se Giorgia Meloni sapesse dell’arietta terzopolista e renziana che avvolge Nordio già prima di sceglierselo o l’abbia scoperta solo a cose fatte. Di certo, la premier ha collocato di sua mano un altro bell’elemento di contrasto, sempre nel parterre Giustizia. Si tratta del sottosegretario Alfredo Mantovano, magistrato, supercattolico di destra, campione di Alleanza Cattolica, già vicino a Gianfranco Fini dal quale si allontanò ai tempi della svolta laica (fecondazione assistita, biotestamento, eccetera) per tornare ai tribunali, rappresentante di un’idea per cui la destra è il partito della legalità e della legge, e che quindi da questo punto di vista è l’esatto opposto del Nordio garantista. Non è un caso che Mantovano abbia confermato a vice capo del Dagl Roberto Tartaglia, nominato al dipartimento per gli affari giuridici e legislativi ai tempi di Draghi e noto per essere stato a Palermo, fra l’altro, uno dei pm del processo Trattativa Stato-mafia con Nino Di Matteo. Insomma una certa impostazione culturale, quella che il 18 gennaio ha portato lo stesso Mantovano, tra i fondatori del Centro studi Livatino, davanti alla reliquia della camicia insanguinata del giudice-beato esposta in Senato. Anche questa linea aveva una sua candidata alla vicepresidenza del Csm: la neoconsigliera Daniela Bianchini, avvocata, parte anche lei del Centro studi Livatino. Stavolta non è andata, ma la legislatura è lunga.