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di Errico Novi

Il Dubbio, 14 novembre 2023

Ieri vertice governo-procuratori alla Dna: è una “distensione” che blocca la riforma. Greco (Cnf): “In gioco il giusto processo”. L’Ucpi: “Lo stop è segno di debolezza”. Ventisei procuratori. I più importanti d’Italia. I capi degli uffici inquirenti che sono sedi anche delle direzioni distrettuali Antimafia. Sono i convenuti non prevedibili del vertice celebrato ieri pomeriggio a via Giulia, voluto dal procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Presenti gli altri magistrati della Dna e tre figure di vertice dell’attuale Esecutivo, a cominciare dalla premier Giorgia Meloni, con la quale sono intervenuti il guardasigilli Carlo Nordio e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, entrambi ex magistrati.

Sono le tre figure decisive, nell’attuale maggioranza, sulla politica della giustizia. Come notato dal “Fatto quotidiano”, che ieri ha anticipato la notizia dell’incontro nella propria edizione on line, il summit alla direzione nazionale Antimafia - concluso ieri quando questa edizione del Dubbio era già in stampa - non è un inedito: già in passato, quando via Giulia era guidata da Federico Cafiero de Raho, si erano tenuti incontri ai massimi livelli con rappresentanti del governo.

E neppure è nuovo il dialogo fra Melillo e Palazzo Chigi: se n’era avuto un esempio col decreto 105, poi convertito dal Parlamento, che ha esteso a reati non associativi le misure sulle intercettazioni previste per il 416 bis. Quel provvedimento è nato da una sollecitazione del procuratore Melillo, raccolta innanzitutto da Mantovano. Il punto è che ieri sono stati coinvolti anche i capi delle più importanti Procure del Paese: il dialogo, dunque, non è solo fra l’Esecutivo e una istituzione del tutto particolare nell’ordinamento giudiziario qual è la Procura nazionale antimafia: vede coinvolta, di fatto la magistratura ai suoi massimi livelli. Il quadro definisce un rapporto che ricade pesantemente sull’ipotesi di separare le carriere: cioè sulla riforma che dovrebbe sancire il divorzio dei pm, appunto, dalla magistratura giudicante.

È pensabile che una riforma del genere, apertamente osteggiata dall’ordine giudiziario con pochissime seppur coraggiose eccezioni, sia compatibile con un dialogo politico-istituzionale come quello che si è ormai consolidato sull’asse Mantovano-Melillo, e al quale innanzitutto Meloni e lo stesso Nordio non si sottraggono affatto? Sembra molto difficile. Un equilibrio così attentamente preservato dal dialogo preferenziale tra Palazzo Chigi e via Giulia sembra oltrepassare persino la brusca frenata imposta, sulla separazione delle carriere, dal guardasigilli nello scorso fine settimana. Sabato, al forum della Fondazione Iniziativa Europa, Nordio ha gelato i fan delle carriere separate con la seguente frase: “Il premierato non uccide la riforma costituzionale della giustizia ma forse la posticipa”. Il ministro ha quindi confermato l’interpretazione prevalente sul senso di questa asserita incompatibilità: il ddl che prevede l’elezione diretta del premier sarebbe seguita da un “quasi certo referendum”, il che non preclude “una riforma costituzionale sulla giustizia” a condizione che quest’ultima venga presentata “nei primi mesi dell’anno prossimo” e quindi viaggi “in modo successivo”.

È il riflesso di quanto Meloni aveva detto a fine ottobre in un summit con i propri ministri: “Una contemporaneità tra la madre di tutte le riforme”, il premierato appunto, e “la separazione delle carriere” avrebbe creato “confusione” e “ingrossato le file dei contrari al rafforzamento del premier, ai quali si aggiungerebbe la parte di opinione pubblica ostile alla separazione tra giudici e pm”. Discorso che può avere anche senso. Ma che rischia di essere aggravato dal particolare lavoro di distensione fra governo e magistratura culminato nel vertice di ieri alla Dna: anche quando il convoglio del premierato sarà al riparo da “collisioni” con la riforma della magistratura, davvero è credibile che l’esecutivo Meloni trovi la forza di incenerire il dialogo con le toghe e separarne le carriere?

Ieri a via Gulia si è discusso, tra l’altro, del decreto legislativo che attuerà la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, che nei prossimi giorni sarà in Consiglio dei ministri. Sul tavolo, pure la prospettiva di rivedere le norme sulle misure di prevenzione, che il codice antimafia consente di infliggere anche a chi è assolto, in sede penale, dal 416 bis: questione resa urgente dal giudizio che a breve la Corte europea di Strasburgo esprimerà sul ricorso Cavallotti.

È chiaro che la separazione delle carriere resta una materia incandescente, rispetto al rapporto toghe-Esecutivo. E inevitabilmente l’avvocatura assiste con rammarico a questa “paralisi diplomatica”. In un intervento al convegno tenuto nel fine settimana a Venezia da “Magistratura indipendente”, il presidente del Cnf Francesco Greco ha ricordato che “fino a quando chi accusa e chi giudica saranno colleghi, non ci potrà essere un processo giusto”. E ieri è intervenuta con un comunicato l’Unione Camere penali, che proprio sulla separazione delle carriere ha promosso la legge di iniziativa popolare “testimoniata dalle oltre 77.000 firme raccolte”.

Il testo è alla base della discussione già avviata in commissione Giustizia alla Camera, ma ora, osserva l’Ucpi, lo stop all’iter sulla riforma sarebbe “un grave segnale di debolezza della politica nei confronti della magistratura, che ha sino ad ora manifestato, nella sua parte prevalente, la propria contrarietà a ogni intervento che modifichi lo status quo”. I penalisti ricordano che “la riforma dell’ordinamento giurisdizionale è un preciso impegno assunto dalla maggioranza e scegliere di non darvi impulso fin dall’inizio della legislatura equivarrebbe a un grave errore”. Un errore legato alla realpolitik dei rapporti con la magistratura. Che il vertice di ieri alla Dna ha potentemente rafforzato.