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di Ilaria Donatio

Il Riformista, 15 novembre 2023

Caino - oltre ad essere un personaggio biblico, fratricida per motivi abietti - è il protagonista dell’omonimo romanzo di José Saramago: lo scrittore portoghese ne fa un viaggiatore nello spazio e nel tempo che attraversa tutti gli episodi più significativi dell’Antico Testamento. Attraverso questo Caino errabondo, i lettori scoprono le pretese del Dio della Bibbia insieme ai suoi castighi. E da personificazione del male, nell’allegoria letteraria, Caino diventa anche vittima, schiacciato com’è dal potere vendicativo del suo dio, superiore - per crudeltà - a lui e agli altri peccatori. In chiave giuridica, questa immagine evoca i tratti essenziali di una pena “costituzionalmente orientata”: l’atto criminale - per quanto efferato sia - merita giustizia e non vendetta, da cui Caino deve essere sempre protetto. Ed eccolo il cuore del libro “Pena di morte, morte per pena” a cura dell’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino (Edizioni Ponte Sisto, 2023) che raccoglie storie, lettere, testimonianze e riflessioni sulla pena di morte e sui tanti casi di morte a causa della pena che si stava scontando, accaduti nelle carceri di tutto il mondo, durante il 2022 e fino ai primi sei mesi del 2023.

Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere, e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori. Queste circostanze sono spiegate molto bene nel dossier “Morire di carcere” curato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti. E spesso, gli stessi operatori - anche medici - sembrano rincorrere un automatismo: il suicidio è “giustificato” dallo squilibrio mentale. Per questa ragione, l’unica risposta che predispongono per chi sopravvive è l’isolamento oppure il ricovero in psichiatria. Nessuna prevenzione: neanche lo sforzo di comprendere le ragioni della disperazione di chi si toglie la vita.

Eppure, si legge nel dossier, l’elemento che accomuna i suicidi di chi è appena stato arrestato con i detenuti che stanno per terminare la pena è la mancanza totale di prospettive. Nessuna prospettiva di poter trascorrere utilmente una lunga detenzione: perché in tante carceri, il tempo della pena è tempo vuoto. Nessuna prospettiva di poter tornare a vivere “normalmente”, per chi è entrato e uscito troppe volte dal carcere e si sente condannato (anche in libertà).

Perché, quando la pena in carcere finisce, inizia l’altra pena, durissima, di ritrovare un posto nella società, con lo stigma di essere stato un detenuto: e se soffri di dipendenze, se hai problemi psichiatrici, se sei straniero o sei povero, è quasi certo che la condizione in cui versi - da persona libera - si sarà aggravata ancora di più. Per esempio: che fine hanno fatto i Consigli di Aiuto Sociale la cui istituzione è prevista proprio dall’ordinamento penitenziario (artt. 74-78) per il reinserimento sociale? In tutta Italia se ne contano sulle dita di mezza mano!

Chi finisce in carcere ha commesso reati. È ora che lo Stato che lo ha detenuto o lo detiene in uno dei 189 istituti penitenziari italiani - condannato, nel 2013, per violazione sistematica dell’art. 3 della Convenzione EDU (trattamenti disumani e degradanti) - rientri nello “Stato di diritto” dal cui perimetro, troppo spesso, è fuori per il mancato rispetto delle regole di convivenza civile più basilari.