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di Rachele Callegari

Avvenire, 1 febbraio 2024

Democrazia contro dittatura, alla fine usano lo stesso sistema di punizione: il capestro. Ma a Teheran 60 donne del carcere di Evin, di fronte all’ennesima esecuzione, si ribellano e rifiutano il cibo. Da un lato l’Alabama, l’Occidente, la democrazia. Dall’altro l’Iran, il Medio Oriente, la Repubblica islamica. Due apparenti antitesi che la scorsa settimana si sono rese protagoniste di un medesimo episodio, l’esecuzione della condanna a morte di un detenuto.

Prima è toccato a Mohammad Ghobadlou, un giovane con disturbi mentali, condannato nel novero delle proteste per l’uccisione di Mahsa Amini, colpevole di aver travolto con la sua auto e ucciso il sergente maggiore Farid Karampour Hasanvand. Si tratta dell’undicesima condanna a morte per gli scontri seguiti all’uccisione della ventiduenne da parte dalla polizia morale, eseguita dall’autunno del 2022, quando sono iniziati i moti di protesta. Come reazione all’esecuzione, circa 60 detenute del carcere di Ervin, soprattutto attiviste e detenute politiche, hanno indetto uno sciopero della fame. Le motivazioni che portano ad una sentenza di condanna, in Iran, vanno ben oltre le manifestazioni, tanto che l’organizzazione Iran Human Rights ha stimato che solo nel 2023 sono state 604 le esecuzioni capitali.

Solo un paio di giorni dopo l’uccisione di Mohammad Ghobadlou, in Alabama è stata eseguita la condanna a morte di Kenneth Eugene Smith, detenuto nel carcere di Atmore dal 1998 perché accusato di aver ucciso la moglie di un pastore su commissione dello stesso, che voleva ottenere i soldi dell’assicurazione sulla vita della donna. Smith era già stato sottoposto, un anno fa, all’iniezione letale a cui era però sopravvissuto: questa volta, la morte è stata causata da ipossia da azoto. Un metodo finora mai sperimentato perché giudicato crudele e doloroso, vietato persino sugli animali, ma approvato dalla Corte Suprema dell’Alabama.

Da un lato un Paese che ricorre alla pena di morte come repressione del dissenso, dall’altro uno Stato che lo fa per punire un condannato, ma in una maniera “incostituzionale” secondo quanto riferito dall’avvocato di Equal justice initiative, Angie Setzer. In entrambi i casi, tante le organizzazioni e gli appelli che si sono susseguiti per far desistere i boia; in entrambi i casi, non hanno funzionato. Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: due Paesi in rotta di collisione hanno un alleato comune: il boia.